Morta la mamma di Stefano Cucchi, nel 2019 aveva scoperto di essere malata

17 Ott 2022 13:43 - di Roberto Frulli

È morta Rita Calore, la mamma di Stefano Cucchi, il geometra romano il cui decesso, avvenuto il 22 ottobre  2009 all’ospedale Pertini dove si trovava in custodia cautelare dopo un fermo per stupefacenti da parte dei carabinieri della Capitale, è divenuto un caso politico-giudiziario con uno strascico di polemiche e la condanna in via definitiva, da parte della Cassazione, dei militari dell’Arma, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale.

“Non ce l’ha fatta. Questa mattina Rita Calore si è arresa per andare a riabbracciare Stefano. Il figlio mai perduto. – ha scritto, su Facebook, l’avvocato Fabio Anselmo, legale della famiglia del giovane e compagno di Ilaria Cucchi. – Lo scrivo con tanta emozione e mi stringo a Giovanni ed #Ilaria. Non mi viene altro da dire a questa grande famiglia”.

Nel 2019 la donna aveva scoperto di essersi ammalata. “Pensavo fosse la sciatica che mi porto dietro da anni”, aveva raccontato a Repubblica.

La vicenda giudiziaria di Stefano Cucchi ha visto finire alla sbarra, in un primo lungo e complicato processo, scaturito dalle indagini della Procura di Roma, 6 medici e 3 infermieri che ebbero in cura il geometra romano in custodia cautelare al Pertini oltre a 3 agenti della polizia penitenziaria.

La sentenza di primo grado che condannava i sei medici, fra cui il primario Aldo Fierro ma assolveva gli infermieri e gli agenti della penitenziaria venne ribaltata in appello con l’assoluzione di tutti i medici.

La Cassazione dispose poi il parziale annullamento della sentenza ordinando un nuovo processo per cinque dei sei medici precedentemente assolti.

Nell’appello-bis, il 18 luglio 2016 la Corte d’appello di Roma assolse i cinque medici dall’accusa di omicidio colposo con la formula “il fatto non sussiste”.

Un anno dopo, il 19 aprile 2017, la Cassazione intervenne nuovamente sulla vicenda di Stefano Cucchi disponendo l’annullamento dell’ulteriore sentenza di appello e ordinando un nuovo processo per i cinque medici dell’ospedale Pertini i quali, secondo la Suprema Corte, avevano dimostrato gravi negligenze per ritardi sia nella diagnosi, sia nelle cure. Ma, il giorno dopo, scattò la prescrizione per il resto contestato ai medici.

Passò un anno e, a marzo 2018, si aprì l’appello-ter. Ma si era oramai in regime di prescrizione. Con la sentenza del 14 novembre 2019 la Corte d’appello di Roma assolse, per “non aver commesso” il fatto, la dottoressa Stefania Corbi dichiarando, al contempo, il “non doversi procedere per intervenuta prescrizione” del reato nei confronti del primario Aldo Fierro e dei medici Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo.

Il capitolo giudiziario su medici, infermieri e agenti della polizia penitenziaria venne così chiuso ma, nel frattempo, si era aperto il fronte giudiziario sui carabinieri in seguito all’esposto della famiglia Cucchi, che parlava di un pestaggio, alla Procura di Roma portando all’apertura di un’inchiesta-bis con l’ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale.

L’iter giudiziario di questo filone relativo ai carabinieri  ha portato poi alla condanna dei militari dell’Arma, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro a dodici anni di reclusione per omicidio preterintenzionale e dei colleghi Roberto Mandolini e Francesco Tedesco rispettivamente a 3 anni e 6 mesi e a 2 anni e 4 mesi di reclusione.

C’è stata, poi, un’inchiesta-ter relativa ai depistaggi. originata da una denuncia contro ignoti presentata dal carabiniere Francesco Tedesco il quale evidenziava la scomparsa di una sua annotazione di servizio indirizzata ai suoi superiori con la quale rivelava di aver assistito al pestaggio di Stefano Cucchi presso la caserma della Compagnia Roma Casilina da parte dei propri colleghi Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro.

Questo terzo filone di inchiesta sui depistaggi attuati dai carabinieri si è concluso il 7 aprile scorso con la condanna, da parte del Tribunale di Roma, del generale dell’Arma, Alessandro Casarsa a 5 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici, Francesco Cavallo e Luciano Soligo a 4 anni di reclusione e all’interdizione per 5 anni dai pubblici uffici, Luca De Cianni a 2 anni e 6 mesi di reclusione, Tiziano Testarmata e Massimiliano Colombo Labriola a 1 anno e 9 mesi di reclusione (pena sospesa per entrambi) e Lorenzo Sabatino e Francesco Di Sano a 1 anno e 3 mesi di reclusione (pena sospesa per entrambi).

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