Giorgia e la fiamma. I simboli sono storia politica, non veti alla premiership

17 Ago 2022 11:24 - di Carmelo Briguglio

Scrivo più a freddo, come occorre per riflessioni più pacate, ad uso ove convenga: i simboli politici si rispettano. Tutti. Come le appartenenze. Quello glorioso – sì glorioso per più generazioni e milioni di persone – della falce e martello, disegnato per il Pci da Renato Guttuso, artista grande, prima “noir”, poi “rouge”: sappiamo da dove viene, no? Su quali rivolgimenti tragici venne issato nel secolo breve? Nei vessilli ufficiali di quali partiti e Stati stranieri c’è tuttora? Ma nessuno si è mai sognato di applicargli la “cancel culture”. E, prima d’ora, nessuno, nel nostro Paese, aveva insistito più di tanto sulla simbolica come patente di democrazia; soprattutto, nessuno aveva mai chiesto l’epurazione di un simbolo di partito come passaporto per Palazzo Chigi.

Simboli di partito, quella falce e martello

Walter Veltroni, si accomodò nella stanza dei bottoni da vice premier targato Pds; che la falce e martello l’aveva, eccome, ai  piedi della Quercia. Massimo D’Alema, varcò il portone  da capo del governo, quando aveva appena mollato il vecchio logo, nel passaggio da Pds a Ds: l’albero ancora ne portava i segni alle radici. Pochi anni dopo, Fausto Bertinotti, leader che il comunismo voleva rifondare, si trasferiva con quel marchio “bolscevico” addosso alla presidenza della Camera: la terza carica dello Stato. Il che per dire ? La fiamma – che nulla c’entra col fascismo – é immagine plurale. Se proprio volete avvistarla in luoghi sentimentali della destra, andate all’araldica dei Carabinieri; o anche dei Vigili del Fuoco. Non al Ventennio. Se, invece, fate un’analisi seria, eccola. 

I simboli sono storia politica 

Le storie politiche sono una ricchezza: compongono, con le loro passioni e contrapposizioni, la nostra trama comune. Di italiani di destra e di sinistra: di ogni “tòpos” civile. Cioè a dire: i soggetti politici sono dinamici. Le loro forme si evolvono. Come le antropologie dei leader. Che non rimangono prigioniere del tempo che le ha precedute. E neanche delle sue figure. Il popolo della destra – come il popolo della sinistra – nel dopoguerra italiano, é stato un popolo in cammino. Lo é tuttora. Ha avuto e avrà fasi, tappe, svolgimenti. Cambiamenti. Una storia complessa, ma che si é sempre mossa nel grande fiume delle istituzioni. E della lealtà verso di esse. Non ne é mai uscita. Con contributi importanti: dalla costituzionale battaglia contro la legge-truffa, all’adesione a Nato e Comunità europee; alla stagione di governo di Alleanza nazionale dove occupò con dignità e altrui rispetto gli Esteri, la Difesa, le Politiche comunitarie, il Commercio estero; fino alla scelta occidentale e di interesse nazionale di Fdi, dall’opposizione, in favore dell’Ucraina, vittima di una guerra di aggressione da parte di Putin. Prove e controprove di ciò che nel discorso pubblico gli altri chiedevano. Anche in surplus. Non solo “intra moenia”, ma soprattutto nelle sedi extra. Dove siede il “giudice” più severo: la Comunità internazionale con le sue istituzioni. Da Bruxelles e Strasburgo a Francoforte e Washington, la destra parlamentare non ha mai subìto cartellini rossi. L’icona della fiamma, in cui hanno creduto milioni di italiani, ha accompagnato questo tragitto. Con la sua grande e poi piccina presenza: testimone, con le sue varianti, di un percorso dentro il sistema politico. Dritto. Senza mai sbandamenti o assalti ad alcunché. É una “traditio” di idee; oppure, se più piace ai fedeli della storia lineare, un’evoluzione. Ok, lo concedo, a voi di sinistra: chiamatelo “progresso”. 

Premier figlia della nostra Repubblica 

Che oggi sbocca nella formazione dei conservatori italiani ed europei. Fino ad esprimere una leadership che vuole guidare la Nazione. Col consenso, se non con che? Lo so: i maligni vi leggeranno  una beffarda eterogenesi dei fini. A sinistra attendevano la Donna, la prima a presiedere il governo del Belpaese; un’attesa messianica: l’aspettavano dalla propria parte. L’hanno reclamata, a gran voce. E invece gli arriva, bella tosta e “conservative”. Dalla direzione opposta. Da destra. E così le tirano le pietre: tra queste la scomunica della bandiera. Scattosa. Reattiva. Un po’ puerile, diciamola tutta. Senza Ragione. La quale dà questa lettura: se ci sarà, quella di Giorgia Meloni sarà una premiership figlia della nostra storia, del nostro tempo. E della nostra Repubblica. Dove il rito delle elezioni legittima chiunque col placet del popolo. Lo fa, ora con gli uni, ora con gli altri.  Assegna vittorie e sconfitte; promuove persone e colori; ma che cambiano, secondo i cicli che la vita pubblica imprime a se stessa. Domani toccherà alla capa di Fratelli d’Italia ? Ma, dopo ancora, spetterà all’Altro o Altra da lei. Di opposta matrice e visione. É l’alternanza. É la cultura bipolare, che fa vincere tutti. A turno. É la vecchia “scatola” di input e output di Aeston, che assorbe e rilascia politiche e pubbliche personalità. Diverse tra loro. Toccherà al centrodestra? Toccherà a una premier “di destra”? 

I leader, simboli in carne e ossa

É il sistema politico contemporaneo; dove il vero “symbolum” ormai sono esseri in carne e ossa. E sangue: sono i leader. Non più gli emblemi passati. Piaccia o no, ormai é così. Nel mondo. Simbolo ha nella sua radice – dicevano i Greci – il “syn bàllein”: il tenere insieme; che si invera nelle “elites”. Come ci hanno insegnato Pareto, Mosca, Michels. Sono loro a fare stare unite le comunità del corpo elettorale. Oggi, molto più di un tempo, hanno questa responsabilità. Gli stemmi “storici” – tutti – ci ricordano solo il percorso fatto: dagli albori della Repubblica ad oggi. Dove resistono, sono tuttora datori di senso. Di comprensibili orgogli. Lo é la fiamma, ormai piccola sotto il nome esteso del leader. Come lo é l’Ulivo, con minore ma significativo passato, ridotto a poche foglie che lo ricordano. La falce e il martello resta nella simbologia dei neo-comunisti. Finché ci saranno, vanno tutti onorati. Per un intellettuale di sinistra come Alessandro Pizzorno, nei partiti di massa – quali tuttora sono Fdi e Pd – l’iconografia politica alimenta le identità collettive. Fornisce risorse emotive alle basi sociali; ricorda la biografia pubblica e intellettuale dei gruppi dirigenti. Continui a farlo. Fino a quando gli antichi simboli si saranno storicizzati del tutto. La cultura politica ne ha ancora bisogno. Oltre primitive propagande e agguati mediatici, misurano partenze e approdi dei partiti e di chi li regge. Ecco: i simboli della politica sono parte della nostra democrazia; non siano mai usati come veti a governare l’Italia. 

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