Caso Amara, il vicepresidente del Csm Ermini: dissi a Mattarella della Loggia Ungheria, non commentò
Al processo per rivelazione di segreto d’ufficio a Piercamillo Davigo nella vicenda dei verbali di Piero Amara, iniziato oggi a Brescia, il vicepresidente del Csm, Davide Ermini svela che parlò a Mattarella della cosiddetta Loggia Ungheria e che il presidente della Repubblica non commentò.
L’udienza di oggi è dedicata in particolare alla testimonianza del vicepresidente del Csm David Ermini, a cui il presidente della prima sezione del Tribunale di Brescia, Roberto Spanò, ha stabilito di riservare “un’udienza dedicata“, per chiarire se e come Davigo, allora componente del Csm, mise al corrente alcuni colleghi dei verbali dell’interrogatorio dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara, ricevuti dal pm milanese Paolo Storari (assolto in primo grado dalla stessa accusa. Sentenza contro cui la procura di Brescia ha fatto ricorso) che voleva ‘denunciare’ una presunta inerzia dei vertici della procura meneghina nell’indagare sulla cosiddetta loggia Ungheria.
Presente in aula l’imputato Piercamillo Davigo, che ha scelto di farsi giudicare con rito ordinario in un’udienza pubblica.
Dei verbali di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria “parlai” a Mattarella, a cui “riferii tutto quello che mi aveva detto il consigliere Davigo e il presidente non fece alcun commento”, rivela, dunque, Ermini.
Un colloquio, quello con il capo dello Stato, che chiese Ermini “di mio impeto” in una telefonata.
“Non mi ricordo se l’ho chiamato prima o dopo” il colloquio con Davigo. “Avevo già in animo di andare dal presidente, perché non vedevo da tre mesi a causa del lockdown e dovevo parlargli di tante cose. Quando ci andai gli parlai anche di questo”, ha detto il vicepresidente del Csm.
Ermini sostiene che fu lo stesso Davigo a chiedergli di parlarne con Mattarella.
“La cosa che mi colpì” è che Davigo “era molto deciso sul fatto che io dovessi avvisare il Presidente della Repubblica, perché in questa presunta loggia erano indicati degli appartenenti alle forze di polizia, finanza e carabinieri, alcuni in servizio altri non più”.
L’allora consigliere del Csm Davigo “disse – ha proseguito Ermini – che era opportuno che il Presidente della Repubblica lo sapesse. Mi disse che c’erano anche due consiglieri in carica, un ex-ministro, un ex-rappresentate di Confindustria. Vidi che era molto istituzionalmente preso dal fatto che il presidente dovesse sapere che c’erano questi rappresentanti delle forze di polizia“.
Alla domanda precisa su quale fosse la ragione per cui Davigo gli parlò la prima volta dei verbali di Amara, Ermini ha risposto: “Gli incontri su questo tema sono stati due. In quella occasione (la prima, il 4/5/2020, ndr) ritengo che volesse che avvisassi il capo dello Stato della presenza di queste persone in questa ipotetica loggia“.
Ermini ricostruisce anche gli incontri con Davigo.
Dopo un primo colloquio “quando rientrammo dal lockdown il 4 maggio 2020“, “qualche giorno dopo il consigliere Davigo si presentò da me senza appuntamento con una cartellina e mi disse che mi aveva fatto stampare queste dichiarazioni (quelle di Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria, ndr).
In quell’occasione l’allora consigliere Davigo “ripete tutto quello che mi aveva detto nel primo incontro, ma sfogliando questa cartellina. Erano tutti fogli non firmati, alcuni con intestazione, altri senza, che contenevano le dichiarazioni che questo Amara aveva reso a dei pubblici ministeri a Milano“, ha spiegato il vicepresidente del Csm.
“Via via che scorreva vidi alcuni nomi che erano scritti e su qualcuno ebbi anche qualche dubbio“, ha detto Ermini, riferendo: “Sulle prime ero un po’ perplesso del fatto che mi fossero mostrati degli atti informali“. All’uscita Davigo “mi lasciò (i verbali, ndr). Io li presi e li cestinai“, perché “noi al Consiglio non possiamo avere atti che non arrivano in modo formale“.
“Secondo me fu una confidenza che lui mi volle fare”, dice Ermini durante la sua testimonianza nel processo per rivelazione di segreto d’ufficio a Davigo.
“Anche in quella occasione ribadì che sarebbe stato il procuratore generale Salvi a occuparsene. Io non potevo sostanzialmente fare niente“, motivo per cui “la ritenni una confidenza che mi fece il consigliere Davigo“, ha spiegato Ermini in udienza, riferendo che Davigo “non mi disse di utilizzarli, ma che li aveva portati solo per farmeli leggere“.
“Mi immagino – ha aggiunto – che me li portò per farmi vedere che quello di cui mi aveva parlato qualche giorno prima era vero”.
“Io ho l’obbligo di difendere il Consiglio e una velina non firmata con dichiarazioni dubbie, perché non sottoscritte, io non la posso accettare”, si difende Ermini durante la sua testimonianza.
Al procuratore di Brescia Francesco Prete che gli ha domandato se Davigo gli chiese di parlare dei verbali al comitato di presidenza, Ermini ha risposto: “No, altrimenti gli avrei detto che non avrei potuto farlo, perché non erano atti formali“.
“Quei documenti lì senza firma e senza niente, anche di indubbia provenienza” cosa potevo fare “portarli all’ufficio di presidenza di fatto rendendoli pubblici?“, si è chiesto durante la testimonianza il vicepresidente del Csm, assicurando che nel colloquio con Davigo “non si parlò di ufficio di presidenza”.