Il figlio di Andreotti: “vidi piangere mio padre quando trovarono il corpo di Aldo Moro”
“Ho visto piangere mio padre solo due volte: quando morì mia nonna e il giorno in cui venne rinvenuto il corpo di Moro“: commentando in un’intervista all’Adnkronos le anticipazioni sulla serie “Esterno notte“, presentata ieri al Festival del Cinema di Cannes, e nella quale il regista Marco Bellocchio fa emergere – nella rappresentazione dei 55 giorni del sequestro, della prigionia e all’esecuzione di Aldo Moro – il cinismo di Giulio Andreotti, il figlio del 7 volte presidente del Consiglio, cerca di restituire un profilo diverso del padre. Proprio a partire dalla vicenda Moro.
“Naturalmente il film non l’ho visto e penso che non lo andrò a vedere. Se anche stavolta il regista Marco Bellocchio ha deciso di seguire la strada utilizzata nel film su Tommaso Buscetta, è meglio lasciar perdere”.
Stefano Andreotti sottolinea come tra la fiction e la realtà famigliare ci siano delle differenze abissali.
“Di mio padre in genere viene data l’immagine di una persona indifferente, che dal mio punto di vista, è totalmente falsa. Chi non lo ha conosciuto lo descrive come freddo e cinico? E’ un luogo comune che semplifica la complessità della persona, il peso delle scelte che ha dovuto prendere, che banalizza la realtà storica e i drammatici eventi degli anni di piombo e della vicenda Moro“.
“Io quella vicenda l’ho seguita da vicino, perché ai tempi abitavo ancora nella casa di famiglia a Roma. Fu una fase terribile, un dramma lungo 55 giorni, cominciato con l’esecuzione dei 5 uomini della scorta, il cui sacrificio viene ancor’oggi dimenticato, o quasi; e proseguito con l’angoscia terribile vissuta dalla famiglia Moro. Io ho visto piangere mio padre solo due volte: quando morì mia nonna e il giorno in cui venne rinvenuto il corpo di Moro“.
“Le responsabilità della mancata trattativa con le Br – prosegue Stefano Andreotti – viene addebitata quasi esclusivamente a mio padre. Ma come si sa bene, non fu così. Contro la trattativa era schierato praticamente tutto il mondo politico a cominciare dal Pci con Enrico Berlinguer, i repubblicani di Ugo La Malfa, una parte significativa di socialisti con Sandro Pertini. Per quello che possono contare, gli avvenimenti di quei giorni sono raccontati anche nei diari di mio padre che, insieme a mia sorella, abbiamo curato e pubblicato lo scorso anno“.
“‘Nei diari degli anni di piombo‘ abbiamo cercato di raccogliere ciò che dal suo punto di osservazione avvenne in quei 55 giorni. In una parte di quelle pagine si percepisce, non dico l’ottimismo, ma la prudente fiducia che mio padre attribuiva all’interessamento e alla mediazione possibile che il Vaticano provò a intavolare con i terroristi in carcere. Per questo tutte le sere molto tardi, almeno nella parte finale del sequestro, veniva a casa nostra il segretario di Paolo VI, monsignor Pasquale Macchi, a parlare e a confrontarsi con mio padre“.
“Anni dopo – prosegue Stefano Andreotti – mio padre mi raccontò che, quando la mattina del 9 maggio 1978 Cossiga telefonò a casa nostra per dire che avevano ritrovato Moro, mio padre, per un attimo, ebbe la speranza, subito cancellata dalla realtà dei fatti, che Moro fosse stato liberato. Le tante persone che lo hanno conosciuto o che hanno lavorato con lui, possono testimoniare e raccontare che il dolore e le amarezze più difficili da sopportare non furono i 12 anni dei processi subiti per varie imputazioni ma i 55 giorni della prigionia e della morte del presidente Dc.
“‘I processi per mafia e per l’omicidio Pecorelli – confessava mio padre – mi hanno colpito ma sono nulla in confronto alla vicenda Moro e all’angoscia per non aver potuto fare nulla per salvarlo. Ora se Bellocchio vuole descrivere mio padre come una persona cinica, priva di scrupoli, indifferente, nessuno può impedirglielo. Ormai ci siamo abituati. Quello che io e mia sorella possiamo fare è cercare di ristabilire, anche attraverso le testimonianze contenute nei diari o cercando nella valanga di documenti lasciati, un giudizio equilibrato su mio padre, come persona e come politico”, conclude Stefano Andreotti.