Cento anni di storia liberale, l’excursus di De Luca mostra ascesa e declino delle élite borghesi

7 Apr 2022 12:57 - di Giuseppe Basini

Una lunga carrellata, un volo dall’alto su cento anni di storia Patria, parlando della storia del partito che più di tutti ha forgiato l’Italia moderna, il Partito Liberale.  Questo è il bel libro di Stefano De LucaCento anni di storia del PLI”.  Senza trascurare affatto la storia delle idee e degli autori, che furono alla base del liberalismo moderno, né i precedenti tentativi di concentrazione liberale.

Il libro prende però le mosse da quel congresso di Bologna dell’otto ottobre 1922, in cui nacque, con questo nome, il Partito Liberale Italiano, come tentativo di unificare le maggioritarie ma sparse forze del notabilato liberale che aveva fatto l’Italia, ma che doveva ricostituirsi, per competere con i nuovi partiti di massa (socialisti, cattolici e fascisti) organizzati su permanenti strutture territoriali e sindacali.  Tentativo giusto e necessario, che si scontrò però con il tradizionale individualismo dei notabili, con l’altrettanto tradizionale diversità di prospettiva della Destra Storica e della sinistra liberale, ma soprattutto fu tardivo. Troppo tardi.

Il crollo di rassicuranti consuetudini, di ottimistica fede nel progresso, di consolidati rapporti sociali, di senso di appartenenza ad una comune civilizzazione, provocato dal disastroso (e idiota) primo conflitto mondiale, unito ai gravi problemi di riconversione della produzione bellica e alla storica rottura determinata dalla rivoluzione d’ottobre, avevano ormai reso la situazione drammatica, estremizzando ed incanagliendo gli scontri sociali.  Le nuove settimane rosse, l’occupazione delle fabbriche, il “facciamo come in Russia”, la nascita del partito comunista, avevano ormai provocato la reazione atterrita della borghesia produttiva, che trovò nelle centinaia di migliaia di piccoli proprietari ed ex combattenti che sentivano tradita la loro vittoria, la sua base di massa e nel vitalismo futurista e dannunziano la sua copertura culturale.

La migliore classe dirigente che l’Italia abbia mai avuto nella sua storia moderna, artefice dell’unità nazionale, dell’industrializzazione, della scolarizzazione per tutti, della prima legislazione sociale e soprattutto dell’abitudine alla libertà, si trovò, forse inevitabilmente, del tutto impreparata a gestire con metodi costituzionali, una situazione rivoluzionaria provocata da sommovimenti mondiali.  De Luca ci mostra puntualmente lo scorrere degli avvenimenti, il ruolo dei principali personaggi, le preoccupazioni, i dubbi e le contraddizioni della dirigenza liberale e della monarchia, in una situazione per loro del tutto nuova.  Sono ricordati i protagonisti, grandi e piccoli, le loro paure, le loro incomprensioni e le loro idiosincrasie, ma soprattutto la loro incapacità a comprendere e governare l’ondata provocata dalla fine delle strutture elitarie.

Trent’anni dopo Einaudi avrebbe annotato: “ L’irrompere delle grandi masse nella vita civile, senza cadere nel cesarismo e nella tirannide, è il problema, tuttora irrisolto, delle democrazie”.  L’ostinazione di una parte della classe dirigente nel rifiutare di aprirsi alle nuove forze (come il vecchio Giolitti invece voleva), lo speculare rifiuto di tanti cattolici e socialisti di seguire una via riformista di progressivo coinvolgimento nel governo,  il prevalere di un massimalismo violento e parolaio, sostanzialmente inconcludente, ma capace di provocare scontri con decine di morti, crearono una situazione insostenibile e la reazione fascista apparve, un po’ per necessità, un po’ per autoconvincimento, molto per paura del bolscevismo, una soluzione praticabile.  Quando la maggioranza parlamentare e il Re, dopo la marcia su Roma, affidarono il governo a Mussolini, erano in larga misura convinti che il fascismo si sarebbe costituzionalizzato o sarebbe stato solo una parentesi e, se oggi è facile in prospettiva criticare quello storico errore, come De Luca in gran parte fa, non bisogna dimenticare che è con il senno di poi che diamo questo giudizio.

Allora le cose potevano apparire –ed in effetti apparvero-in una luce diversa.  Anche perché non è così sicuro che, senza il delitto Matteotti e l’Aventino, che rischiarono di provocarne la drammatica fine, il fascismo si sarebbe comunque trasformato in un regime anticostituzionale e illiberale  (la storia non si fa con i se, ma si capisce meglio con i se). Comunque quasi tutti i liberali, dopo i primi evidenti passi della trasformazione del fascismo in regime, passarono all’opposizione, in molti casi anche decisa, ma, anche qui, troppo tardi.  Nasce da qui l’irrilevanza liberale.  A parte i pochi che vennero a patti in un ruolo secondario, un’intera classe dirigente fu allontanata dal governo della cosa pubblica, il paese perse una grande cultura e prassi costituzionale e i liberali che continuarono a pensarsi e definirsi tali, si ridussero a semplici testimoni di un tempo passato, ancora occupati a spaccare il capello in quattro e a rinfacciarsi responsabilità, ma nel chiuso dei salotti o dei caffè, perché la borghesia industriale ed agraria aveva ormai rinunciato a guidare la Nazione in prima persona, come pure aveva saputo fare nel Risorgimento e aveva consegnato il potere a un partito autoritario, in cambio del mantenimento del mercato e della pace sociale imposta.

I borghesi erano diventati semplici ricchi.  Alla fine però, per effetto di un’altra guerra mondiale, questa volta perduta, il fascismo si rivelò davvero una parentesi, ma una parentesi durata vent’anni.  E, dopo, i liberali credettero di poter tornare.  Guardando le pagine ingiallite del Risorgimento Liberale, scorrendo i resoconti dei settimanali e dei cinegiornali dell’epoca, la notorietà e il prestigio dei nomi che comparivano, si sente l’entusiasmo e l’ottimismo che, all’alba del secondo dopoguerra, facevano i liberali convinti di avere di nuovo un grande ruolo.  Ancora un errore di prospettiva, lo stesso in fondo di vent’anni prima, perché non c’erano più i borghesi e i ricchi erano soltanto di nuovo alla ricerca di qualcuno che “amministrasse il Paese” per conto loro senza mai esporsi in prima persona. E lo trovarono.  Quel “qualcuno” erano i cattolici.

Certo era difficile dar loro del tutto torto, di fronte ad una sinistra ancora peggiore di quella degli anni Venti, guidata internazionalmente da un partito e da un paese che governavano mezzo mondo col terrore, il fanatismo, i carri armati e la polizia politica, non è che ci fosse molto da scegliere, perché di fatto l’unica struttura “politica” rimasta in piedi durante il ventennio era la chiesa, con le sue migliaia di parrocchie, decine di migliaia di preti e un esercito di fedeli, una chiesa tra l’altro guidata da un papa, eletto in un ben differente contesto,  che era il più a destra dell’intera sua storia recente.

Il prestigio della storia liberale era ancora tale che, nella nuova Democrazia Cristiana, si affermarono inizialmente coloro che a buon diritto si potevano definire cattolici liberali come De Gasperi o Sturzo o addirittura Liberal-cattolici come Giuseppe Pella, ma la realtà sottostante era però ben diversa, come gli anni successivi avrebbero poi dimostrato.  Di fatto i liberali trovarono la loro posizione naturale già occupata dai democristiani e questo tolse al PLI un ruolo protagonista. Da parte loro i liberali ci aggiunsero l’eterna divisione tra destra e sinistra, che era tradizionale e continuata con Salandra e Sonnino anche molto dopo la fine di quella Destra Storica che fu di Cavour e Minghetti, ma che, se era stata una naturale dialettica nell’Italietta post unitaria, quando i liberali coprivano praticamente tutto l’arco parlamentare, diveniva esiziale se costretta nei limiti angusti di un piccolo e unico partito, perché lo condannava all’eterna indecisione politica.

Di fatto tra monarchici (la maggioranza) e repubblicani, fautori di un liberalismo popolano all’Uomo Qualunque e simpatizzanti di un liberalismo elitario e tendenzialmente Azionista, tra Roberto Lucifero e Bruno Villabruna, c’erano differenze enormi sulla via da intraprendere, che il magistero di Croce ed Einaudi non avrebbe potuto, per l’avanzare dell’età, coprire ancora a lungo.  Anche se i liberali ebbero un ruolo, per tutta la durata del centrismo, più grande della loro consistenza numerica, ciò fu più per l’azione di De Gasperi e dei suoi, che per meriti propri, fino a quando apparve sulla scena politica il più grande dei liberali della prima repubblica: Giovanni Malagodi.

Malagodi, che, per cultura, personalità, profondità di pensiero, sarebbe probabilmente diventato un assoluto protagonista in un paese meno segnato dalla Controriforma,  impose al partito liberale una precisa svolta in direzione di una difesa intransigente di valori in fondo liberali da sempre: la proprietà, il libero mercato, le ragioni dell’industria privata, contro i tentativi striscianti della sinistra democristiana di aprire al socialismo, sia politicamente che economicamente.  Il congresso dell’ascesa di Malagodi segnò una vera svolta, fu il tentativo di dar vita ad un partito con una reale base elettorale ed insieme una chiara scelta di campo a destra della DC e fu gravido di conseguenze: l’intera sinistra elitaria di Nicolò Carandini,  Bruno Villabruna e del giovane Marco Pannella, uscì dal partito dopo uno scontro durissimo (per dare un’idea dell’atmosfera, al congresso alcuni malagodiani di base, interpreti dello spirito pratico dei piccoli imprenditori, si divertirono a sfottere un certo snobismo  della sinistra cantando : “Se non ci conoscete guardateci i calzini, noi siamo i liberali del conte Carandini”).

Ma il successo elettorale però venne. La caduta per i moti di piazza del governo Tambroni, l’apertura a sinistra del congresso democristiano di Napoli, la nazionalizzazione dell’industria elettrica, spinsero molti elettori verso il partito liberale e la Confindustria ad appoggiarlo apertamente. Sembrò l’inizio di una rinascita liberale, le elezioni del 1963 segnarono un ottimo risultato, ma durò poco, Malagodi non si rese conto di poter provare a diventare un’alternativa di sistema anticipando in Italia la rivoluzione Reaganiana e Tatcheriana e cercò di capitalizzare subito il successo provando a ricostruire il centrismo e contemporaneamente chiudendo alla destra, forse nell’illusione di assorbirne lo stesso i voti, ma non funzionò.  Il vino liberale cominciò ad essere sempre più annacquato e meno attraente per gli elettori, mentre il più importante degli imprenditori italiani, Gianni Agnelli, rompeva il fronte degli industriali coltivando (con un certo successo) il disegno opposto di avvicinare pian piano la sinistra ai valori del mercato.

A partire dai primi anni ’60, i giudizi storici di De Luca cominciano ad incrociarsi coi ricordi personali (lo stesso in parte per me). Ricorda la sua militanza nella nuova sinistra liberale  (il liberalismo italiano, se costretto in un solo partito, diventa come una calamita, per quanto la spezzi ripresenta sempre due poli, uno di destra e uno di sinistra, che si combattono e si elidono) le sue prime battaglie, la grande importanza e vitalità della Gioventù Liberale e dell’associazione goliardica AGI. Ci parla del rientro di un PLI, ormai però indebolito, al governo, delle sue esperienze come sottosegretario e del tentativo di dar vita a un fronte laico alternativo sull’onda della battaglia per il divorzio, fino a quando, come mette in giusta evidenza, un golpe mediatico-giudiziario non distrusse i partiti della prima repubblica e purtroppo con essi anche le loro culture politiche.

La sua coraggiosa, importante ed isolata battaglia per evitare lo scioglimento del partito liberale, per il vero e proprio “cupio dissolvi” che colpì tutti i partiti centristi, dopo mani pulite e le tricoteuses plaudenti, non sortì effetto, ma connota l’identità e la coerenza (anche morale) di un liberale, di sinistra, ma memore della lezione giolittiana, che, pur aperto ai necessari compromessi, non era disposto a perdere memoria di sé e della sua storia.  La sua rielezione, da indipendente, nelle liste di Forza Italia fu una forzata presa d’atto delle nuove condizioni, si trovò però in un partito che giudicò  liberale nelle idee, ma non nella prassi.   E così ha provato, con alti e bassi, fortune e sfortune (soprattutto queste ultime) a rifondare un Partito Liberale, dimostrando una costanza e una tenacia, degne del più grande rispetto per la convinzione e il tempo che vi ha dedicato e che ha spinto alcuni (anche il sottoscritto, nonostante io sia un liberale di destra) a tentare con lui l’avventura.

Ma forse l’errore è nel fondo e fin dal principio.  Il Partito Liberale in Italia è stato grande col collegio uninominale e i notabili, ridotto a partito unitario e col proporzionale non ha mai realmente funzionato e anche oggi, a ben guardare, fin che c’è stato il sistema elettorale scaturito dal referendum Segni, vi erano molti più parlamentari liberali di quanti il vecchio PLI ne abbia mai avuti.  Forse aveva ragione don Benedetto, il Partito Liberale è in realtà un pre-partito, un’associazione o una serie di associazioni culturali, una scuola come quella di Enrico Morbelli, un modo di pensare, una filosofia o forse semplicemente l’insieme di tutti coloro che amano la Libertà, ma come forma partito, con la sua disciplina sempre un po’ faziosa, forse semplicemente non funziona.  Il libro di De Luca ci ha riportato ad una storia che abbiamo vissuto, personalmente o nei libri della nostra giovinezza, ci ha ricordato un’Italia per tanti aspetti migliore, è stato davverouna boccata d’aria fresca. E  poiché di quella storia contraddittoria anche io sono figlio, chiuderò con un paradosso: il Partito Liberale è morto. Viva il Partito Liberale  !

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