L’identità alias entra nel contratto degli statali: basterà la richiesta per cambiare nome sul lavoro
È attesa entro la fine di febbraio la firma del contratto collettivo nazionale del comparto funzioni centrali che consentirà a dipendenti dei ministeri e di altri enti di ottenere l’uso dell’identità alias con una semplice domanda all’amministrazione, corredata da attestazioni mediche. In sostanza, le persone che hanno avviato il processo di transizione di genere potranno farsi chiamare con il nome che hanno scelto, che soppianterà su cartellini identificativi, badge, posta elettronica e targhette sulle porte il nome che compare sui documenti.
Dove e come sarà riconosciuta l’identità alias
La misura riguarderà, oltre ai ministeri, anche le agenzie fiscali, come l’Agenzia delle Entrate, il Demanio, le Dogane e i Monopoli, e gli enti pubblici non economici, come l’Inps e l’Inail. Contenuta già nella bozza del contratto, vagliata il 21 dicembre, la norma sembra ormai destinata ad essere approvata, sebbene manchi ancora il via libera degli organi di controllo sulla sostenibilità normativa e contabile. Resteranno fuori dalla possibilità di cambiare il nome, invece, la busta paga, la matricola, i provvedimenti disciplinari e altri documenti strettamente personali.
Il sindacato: «Può essere una tutela anche sul lavoro»
«In questa fase l’identità alias può essere una tutela, anche sul lavoro. Pensiamo, ad esempio, a una persona in transizione che lavora a contatto con il pubblico in front office e pensiamo all’utente che si trova di fronte a qualcuno il cui aspetto non corrisponde al nome sulla targhetta. Poter usare il proprio nome di elezione nelle relazioni lavorative, con gli utenti e i colleghi, ha un impatto importante sulla vita di queste persone, ne aumenta il benessere», ha spiegato al Domani, Luna Sabatino della Uilpa.
Il rischio che si passi dall’identità alias all’identità di genere
Non si tratta, comunque, di una novità assoluta: la scorsa estate una misura in questo senso era stata adottata dal ministero delle Infrastrutture, accogliendo la richiesta di una lavoratrice, e già da tempo è in uso in diverse università e in alcune scuole. Il rischio, però, è che, da argine alla discriminazione e al disagio, l’utilizzo dell’identità alias si trasformi in una pratica totalmente svincolata dalla condizione oggettiva di chi lo richiede, diventando il grimaldello per l’accoglimento dell’identità di genere. Dunque, che, da una norma tesa a evitare disagio e discriminazioni, si arrivi a situazioni di totale arbitrio, come quelle di cui spesso abbiamo notizia dagli Stati che hanno già da tempo imboccato questa strada e nei quali ormai basta che un uomo dichiari di sentirsi donna (o viceversa) per ottenere di essere identificato come tale, con tutte le delicate, talvolta drammatiche, conseguenze emerse in diverse circostanze di questo tipo.
Il caso dell’Università di Pisa
Il rischio che si sia di fronte alla testa d’ariete per introdurre nella pubblica amministrazione italiana l’ideologia gender, del resto, è tutt’altro che ipotetico: il processo che svincola l’identità alias anche dalla transizione di genere, infatti, è già in atto anche in Italia. Per tutto vale l’esempio dell’Università di Pisa che, già nel 2020, ha approvato un regolamento per cui tanto gli studenti quanto docenti, dirigenti e tutte e «tutti coloro che a vario titolo operano, anche occasionalmente e temporaneamente, nelle strutture dell’Ateneo» possono usare l’identità alias con «la sottoscrizione di un semplice accordo di riservatezza» con l’università, senza neanche più bisogno di presentare alcuna certificazione medica.