Il romanzo di Renzaglia “Cane sciolto” è metafora di una gioventù in lotta. Ma che bella la partita col destino…

12 Dic 2021 18:30 - di Riccardo Arbusti
Renzaglia Cane sciolto

È un autentico gioiellino di scrittura questo Cane sciolto (Edizioni Passaggio al Bosco, pp. 157, euro 10,00) di Miro Renzaglia. Il sottotitolo del romanzo è la migliore chiave di lettura del testo: “Il nero muove e perde”. Invertendo la dicitura che normalmente si trova nella problemistica degli scacchi – “il bianco (o il nero) muove e vince” – ne viene fuori una specie di koan nichilista: qualunque fosse (o fosse stata) la mossa del nero, questi avrebbe comunque perso… Tanto è vero che già nella seconda pagina del libro si legge esplicitamente: “La vita ha senso soltanto nel farla […] Male che vada, del resto, è privilegio dell’uomo fallire”.

Partiamo intanto dall’autore, Miro Renzaglia, che è un poeta finissimo, un artigiano della parola, un musicista del periodare. Al punto che questa sua ultima opera – un testo finalmente narrativo – mantiene fermi tutti i presupposti della vera poesia. E da bravo poeta l’autore riesce a trasfigurare in un racconto metaforico e universale una vicenda che trova senz’altro i suoi appigli anche in esperienze esistenziali vissute (in prima persona, ma anche no) da chi scrive. Non è infatti un banale romanzo sociologico, non è un memoir da “formidabili quegli anni”, non è l’ennesimo amarcord generazionale. No, sono 157 pagine di letteratura, in cui risuona e si comunica il senso della citazione leopardiana posta come epigrafe: “Due cose belle ha il mondo: amore e morte”.

Certo, la vicenda inizia pressappoco attorno al 1970 e si conclude nel 1979, a Roma, nel pieno dei cosiddetti “anni di piombo”. Un contesto che l’autore ha personalmente ben conosciuto e attraversato e, per questo non per altro, pone come lo sfondo credibile della storia. Ma a pensarci bene, la stessa poteva anche dislocarsi altrove e in qualunque tempo… Perché il cuore della vicenda è in realtà lo strano gioco del Destino e della partita a scacchi con lo stesso da parte dell’Individuo. “Ci siamo dati da fare una vita – si legge in esordio – che il tempo stringe e trascina in rovina. Ma è nell’istante che tutto si compie. Tutto è compreso nel nunc: non c’è storia. Perché l’istante equivale all’eterno: non ha principio né fine, non dura. Niente ‘domani accadrà’, nessun ‘è già capitato’ se non all’istante…”.

Sbaglia e sbaglierà, quindi, chi vorrà leggere questo Cane sciolto come l’ennesimo libro sugli anni di piombo “visti da destra” o altri fraintendimenti simili. Non bastano per sostenerlo i riferimenti ad alcuni episodi – accuratamente modificati, anche nei nomi dei protagonisti – e ad alcune parabole esistenziali che pure rendono bene lo spirito del tempo, di un tempo – come tutti i tempi, forse – maledetto e tragico. Il racconto, a leggerlo, va giù dritto fino alla fine. Come la sceneggiatura dei migliori noir e gangster story in bianco e nero degli anni Cinquanta. Una serie di incroci tragici stringono come in un imbuto sempre più stretto e fatale l’esistenza del protagonista anonimo.

Poesia e nichilismo, giovinezza e barricate, ferro e fuoco, amore e rivoluzione: tutto scandito sulle mosse di una metaforica partita a scacchi. Vale la pena riportare un passo significativo: “Così t’impunti sulle circostanze che cominci a respirare, mentre l’adrenalina pompa nel sangue sussulti di frenesie a raffica. Vai alla tua prima manifestazione e ti scordi chi sei, dove abiti e perfino come ti chiami. Stai lì, in mezzo, e non canti canzoni, non ritmi slogan: tu sei canzone e slogan. Sei lo striscione; sei il manico di piccone con una bandierina italica di sei centimetri quadrati appesa in punta; sei il sasso tirato contro la vetrina di una banca; sei la sirena della polizia e il lacrimogeno […] sei il camerata che si asciuga il sangue dalla fronte, seduto sullo scalino del marciapiede; sei il gomito a gomito del serriamo i ranghi…”.

Pagine che, in sostanza, rendono anche il senso universale e letterario di tante esistenze bruciate in quel carnaio che furono la guerra da “ragazzi della via Pal” degli anni Settanta e lo stesso spontaneismo armato. Nel testo di Renzaglia c’è una capacità di descrizione fenomenologica senza giustificazioni di natura storicistica o ideologica. Non c’è traccia di retorica, di compiacimento di parte o di piagnistei vittimistici. Il destino nichilistico, imposto dagli eventi, viene ritratto allo stato puro, senza sovrastrutture e edulcorazioni. Nessuna enfatizzazione, nessuna nostalgia, nessuna lettura da conformismo politicamente corretto.

Riecheggiano sapori pasoliniani e alcuni tratti della parabola del Fuoco fatuo di Drieu… Come in Viale del tramonto di Billy Wilder, il giovane protagonista racconta a ritroso l’ultima fase della parabola ribelle della sua vita fino al momento finale. Vale la pena arrivarci… In qualche modo il destino del protagonista, che è anche lui un poeta, ricorda – mutato lo scenario, ma restando sempre dentro le tempeste d’acciaio del Novecento – la morte al fronte di due grandi poeti francesi, Charles Péguy e Alain-Fournier. “Muove giovane chi è caro agli dèi”, recita il celebre frammento di Menandro. Un destino, sembra suggerire Renzaglia, che incombe anche su chi, miracolosamente, è sopravvissuto alla morte annunciata.

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