Un nuovo “whatever it takes” attende Draghi. Questa volta solo a difesa dell’interesse nazionale
Nulla sarà come prima – si dice – con il governo che sta per nascere. Vero. E non solo per partiti, schieramenti e coalizioni ma anche per Mario Draghi che lo guiderà. A partire dal suo rapporto con l’Unione Europea. Da premier ne continuerà ad essere autorevolissimo protagonista, ma il nuovo ruolo gli imporrà di guardare a Bruxelles da una visuale completamente ribaltata rispetto a quella da cui la inquadrava negli otto anni passati alla guida della Bce. Al di là delle enunciazioni di principio e dei suoi intimi (e insospettabili) convincimenti, non c’è dubbio che ad ispirarne l’agenda sarà soprattutto quel prima l’Italia che ha fin qui inorridito molte forze politiche e scandalizzato gran parte degli orchestrali del nostro mainstream politico-culturale.
Draghi sovranista di fatto?
Certo, il futuro premier non lo urlerà mai in un microfono a mo’ di slogan. Ma è assai probabile che se ne servirà come faro nella perigliosa navigazione che lo attende. Un sovranista di fatto, direbbe qualcuno. Può darsi. In realtà, sarebbe in tutto simile ai suoi omologhi europei con l’unica eccezione di Angela Merkel, in questo agevolata dalla pressoché perfetta coincidenza tra gli interessi Ue e quelli tedeschi. Sovranista, in verità, è un termine in attesa di convincente definizione. Ma può suonare impronunciabile bestemmia solo nei Paesi privi o carenti di coscienza nazionale, perché è solo lì che alligna la pretesa della preminenza di interessi altri (e altrui) su quelli statali.
Pd-Pci: oggi Bruxelles, ieri Mosca
È una tesi che in Italia sostiene il Pd. Un po’ perché erede del Pci, forza dichiaratamente anti-nazionale, e un po’ perché abbagliato dal dogma del perfetto allineamento tra l’interesse Ue e quello italiano. Purtroppo per i suoi dirigenti, nessuno più e meglio di Draghi sa che i due non sempre viaggiano in asse e che non è raro, anzi, vederli avanzare su piani sfalsati. Da presidente della Bce ha potuto difendere i titoli del nostro debito sovrano con il Quantitative easing, anche perché così metteva in sicurezza l’euro. È il motivo per cui la Germania ha dovuto ingoiare, ma senza mai cedere davvero alla tentazione di disarmarlo del bazooka con cui sparava dosi industriali di liquidità sui mercati. Difendeva l’Italia proteggendo l’euro e tutto s’incastrava alla perfezione. Ma non sarà sempre così. E Palazzo Chigi non è l’Eurotower.
Il bazooka e la pistola
Il whatever it takes (a qualsiasi costo) idealmente scritto sulla canna del bazooka del presidente della Bce ora Draghi dovrà inciderlo sul calcio della pistola del premier. Con l’obbligo di tirarla fuori ogni qualvolta vedrà minacciato o mortificato il nostro interesse nazionale. Del resto, nessuno nella Ue sa maneggiarla come lui. Incarnerà la versione “armata” di quei “pugni sui tavoli” più volte invocati prima che l’effetto pandemia+Recovery li consegnasse ad altra era politica. Il resto lo farà il governo di (quasi) unità nazionale ibernando le identità di ciascuna forza politica nel tempo in cui le stesse sosterranno il banchiere fattosi premier. Tra queste, anche lo sfuggente sovranismo. In compenso risorgerà l’interesse nazionale. E Mario Draghi ne sarà il profeta.