“Avvoltoi persuasori” e “ladri di democrazia” uniti per la poltrona: le buffonate di Cinquestelle e Pd
“I deputati e i senatori che nel corso della legislatura si iscrivono ad un gruppo parlamentare diverso da quello per cui sono stati eletti sono dichiarati decaduti ed incandidabili“. È il disegno di legge costituzionale presentato al Senato il 23 marzo 2017 a prima firma dell’attuale capo politico di M5s Vito Crimi e siglato da tutto il gruppo parlamentare. Un altro mondo, un’altra epoca per i Cinquestelle, che – non a caso – non hanno presentato, in questa legislatura, la proposta di riforma ed ora sono impegnati a cercare voti parlamentari di “responsabili” e “costruttori”, a cui affidare le sorti non solo di un governo, ma dei loro destini politici.
Del resto – come diceva il grande pensatore Gabriel Marcel – “Quando uno non vive come pensa, finisce per pensare come vive”. Il risultato, nella politica giallo-rossa d’oggi, è che, sia in casa M5s che in casa Pd, tutti tirino a campare, rimangiandosi sistematicamente affermazioni di principio e buoni propositi della vigilia.
Qualche esempio ? “L’Euro non è democratico. Bisogna prevedere procedure per uscirne“: così Luigi Di Maio, il 22 marzo 2017, alla presentazione nella sede della ‘Stampa Estera’ a Roma, del “Libro a 5 Stelle dei cittadini per l’Europa“. Di Maio allora rilanciava “il referendum consultivo per chiedere ai cittadini italiani se vogliono uscire della moneta unica“, perché “uno Stato sovrano deve poter gestire la propria moneta”. In caso di esito favorevole all’uscita, per il Movimento 5 Stelle, l’idea era di “organizzare con altri Stati ‘usciti’ dall’Euro oppure prevedere un ritorno alla Lira”. Sul rapporto con il Pd sono note le accuse sempre di Di Maio contro il partito di Bibbiano, di Mafia capitale, delle banche che rubano ai risparmiatori onesti, della corruzione (un partito – faceva notare Di Maio nell’agosto 2019 – che negli ultimi sette anni ha visto 1.043 arresti dei suoi esponenti e 384 indagati).
D’altra parte, nel febbraio 2019, sul tema delle alleanze era stato il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, nell’ambito della Convenzione Nazionale del partito, ad essere ugualmente perentorio: “Non farò mai alleanze col M5s. Lo dico a chi mi accusa di governare con loro”. Sul banco degli accusatori c’erano paradossalmente i renziani, gli stessi che poi spinsero per l’intesa giallo-rossa di governo. A ridosso dell’insediamento del secondo Governo Conte, Alessandro Di Battista, espressione dell’ala movimentista dei Cinque Stelle, sulla Rete andava giù duro: “Sono sempre stato contrario ad un governo con il Pd non è un segreto. Ho sempre reputato il Pd il partito del sistema per eccellenza, quindi il più pericoloso. Il Pd è un partito ‘globalista’, liberista, colluso con la grande imprenditoria marcia di questo Paese, responsabile (paradossalmente più della destra che ho sempre ugualmente contrastato) delle misure di macelleria sociale che hanno colpito i lavoratori italiani”.
Sulla carta non andava peraltro meglio nel rapporto tra Cinquestelle e Matteo Renzi, definito “l’avvoltoio persuasore” da Beppe Grillo alla vigilia dell’assemblea dei deputati e dei senatori M5s (siamo sempre a metà dell’agosto 2019) che poi avvallerà l’accordo per il Conte Due. Al termine della riunione, Di Maio, ancora capo politico, su Facebook così tracciava la linea: “Nessuno vuole sedersi al tavolo con Renzi”. Ma intanto alcuni parlamentari grillini non escludevano che si potesse arrivare a quello che veniva definito “un governo di ampio respiro”.
Con queste premesse non c’è da stupirsi che, alla prova dei fatti, il Conte due, quello dell’alleanza tra i “ladri di democrazia del Pd” (parole di Di Maio) ed i “terribili populisti” grillini (l’accusa del Pd contro i Cinque Stelle), si sia poi sfarinato, sotto la pressione dell’ “avvoltoio persuasore” Matteo Renzi, rendendo palesi le contraddizioni di un’alleanza che sul Mes, sulle grandi opere, sulle concessioni autostradali, sulla riforma fiscale e su quella della Giustizia ha mostrato il suo immobilismo. Per non parlare della gestione dell’emergenza Covid 19, caracollata tra i banchi con le rotelle, i limiti della medicina territoriale, l’inconsistenza dei protocolli di sicurezza, i difficili e confusi rapporti tra Stato e Regioni.
Ora nel Gioco dell’Oca della politica italiana siamo di nuovo al Via, con le stesse forze in campo, con gli stessi veti incrociati, con le ambiguità di un insieme di forze politiche il cui impegno principale sembra essere quello di conservare a tutti i costi le rispettive rendite di posizione, ben lontane dalle esigenze del Paese Reale, e costruite da un Movimento nato in reazione al Pd, da un Pd compatto contro le “derive populiste” di Grillo e da un’Italia Viva uscita fuori da una scissione del Pd, senza mai passare però al vaglio elettorale.
Agli atti rimane il già ricordato disegno di legge costituzionale contro il vincolo di mandato, presentato al Senato il 23 marzo 2017 a prima firma dell’attuale capo politico di M5s Vito Crimi e siglato da tutto il gruppo parlamentare, ma non più ripresentato in questa legislatura. E’ il sigillo al trasformismo di un Movimento che con il suo “stile nuovo” ci riporta alle cronache di un’Italietta in balia del malaffare parlamentare e del trasformismo, così efficacemente sintetizzata da Francesco Crispi: “Bisognerebbe vedere il pandemonio di Montecitorio quando si avvicina il momento di una solenne votazione. Gli agenti del Ministero corrono per le sale e pei corridoi onde accaparrare i voti. Sussidi, decorazioni, canali, ponti, strade, tutto si promette; e talora un atto di giustizia lungamente negato è il prezzo di un voto parlamentare”. Era il 1886. Per molti a Montecitorio il tempo è passato inutilmente.