Un libro di Denis Curti per capire la fotografia contemporanea che è “arte del futuro”

12 Dic 2020 16:03 - di Rocco Familiari

Il libro di Denis Curti, Capire la fotografia contemporanea, appena pubblicato da Marsilio nella collana “Cartabianca”, reca, ignoro se per scelta editoriale o dell’autore, un sottotitolo, guida pratica all’arte del futuro, al tempo stesso esatto e fuorviante. Esatto, perché in effetti nel corposo volume si trovano accurate istruzioni per la migliore comprensione di quella che è diventata la forma di arte figurativa più praticata del XXI secolo (Curti riporta un dato impressionante: “Ogni due minuti vengono realizzate più foto di quante abbia prodotto tutto l’Ottocento”). Fuorviante, dato che lo splendido testo non è solo questo, ma a buon diritto andrebbe messo accanto ai saggi che famosi maîtres-à-penser hanno dedicato all’“ottava arte”, penso ai due lavori citati nello stesso volume, La camera chiara di Roland Barthes e la Piccola storia della fotografia di Walter Benjamin, o a Susan Sonntag, da un libro della quale (Sulla fotografia, Einaudi, 1967) Curti riprende l’affermazione con cui Zola salutava l’avvento della nuova tecnica: “Non si può sostenere di aver visto qualcosa se non lo si è fotografato.” Lo scrittore francese non immaginava certo che sarebbe stato preso alla lettera dalle frotte di turisti che girano il mondo con l’occhio incollato alla cinepresa o al mirino delle loro macchine, per poi “vedere”, per la prima volta, i luoghi visitati, soltanto al rientro a casa, proiettati sullo schermo o stampati.

Poiché ho raggiunto un’età in cui potrei malinconicamente affermare, con Mallarmè, che La chair est triste, helas et j’ai lu tous les livres (temperando magari questa seconda parte del celebre verso con l’aggiunta almeno di un presque…), è difficile che una nuova lettura possa sorprendermi. In questo caso invece è avvenuto. Per l’originalità dell’impostazione, la perfetta padronanza della complessa materia, la raffinatezza della scrittura, densa senza mai essere ridondante e, infine per la capacità dell’autore di iscrivere quella che, con elegante understatement, definisce “una piccola mappa tascabile”, in un amplissimo contesto culturale. Come tanti lettori “di lungo corso”, uso cominciare dal metatesto, il titolo cioè, la foto di copertina, le schede dei risvolti, le citazioni in quarta, l’indice e, last but not least, l’indice dei nomi. Anzi, è proprio questo che vado a scorrere subito, per capire quale sia l’orizzonte intellettuale abbracciato dal lavoro che mi accingo a leggere. E la prima sorpresa è stata, cercando a caso, quella di trovare il nome di un pittore per ragioni personali a me molto caro, Caspar Friedrich, autore del Viandante sul mare di nebbia, del 1818 (ora alla Kunsthalle di Amburgo), il quadro più romantico che sia stato dipinto (più del celeberrimo L’isola dei morti di Böcklin, tanto amato da De Chirico). E scopro, grazie a Curti, che Friedrich è anche autore di quello che può essere definito una sorta di “graffito” dell’era preistorica della fotografia. Il pittore tedesco  dipinse infatti un paesaggio notturno illuminato dalla luna e, al centro della tela, praticò un forellino da cui doveva filtrare, dal vivo, la luce del pallido astro: insomma una vera e propria “camera obscura.”

Ma, in questa esplorazione randomica, di “sorprese” del genere ne ho trovate tante, grazie al “metodo” usato da Curti (quello cioè di mettere in collegamento fra loro eventi, situazioni, appartenenti al mondo dell’arte in generale, anche distanti temporalmente) con cui raggiunge esiti interpretativi inusitati e perciò illuminanti. Un esempio: nel descrivere la celebre foto del 1981 di Helmut Newton, Autoritratto con la moglie e le modelle, Curti ne rintraccia un illustre antecedente nell’opera forse più straordinaria di tutta la pittura occidentale, Las Meninas (l’attrazione del Museo del Prado). E lo fa attraverso la “mediazione” di Michel Foucault. Il filosofo francese infatti nel 1966 rilesse il capolavoro di Velasquez (in Le damigelle d’onore, compreso nel volume Le parole e le cose, pubblicato in Italia dalla BUR nel 1978), interpretando in chiave psicanalitica il complesso gioco di specchi (poi ripreso appunto da Newton) usato dal pittore per articolare la composizione: “lo specchio è uno sguardo che esce dal quadro per mostrare ciò che sta al di là del quadro, nel nostro spazio.”

Il volume è diviso in cinque parti. Con le parole stesse dell’autore, la prima è dedicata alla sua “esperienza personale e professionale, che da molti anni si intreccia con la fotografia, i suoi riti, le sue specificità e i suoi continui mutamenti”, condensata icasticamente nell’inciso: “E’ la storia di una passione.” Vi è poi “un breve ma comprensivo excursus sulla storia della fotografia … la sua natura di linguaggio ambiguo.” A seguire una rassegna dell’“opera di ventuno maestri conosciuti in prima persona o… attraverso il loro archivio.” La quarta sezione tratta “il tema del collezionismo in fotografia, fenomeno piuttosto recente in Italia.” Il quinto capitolo si chiude “con una riflessione sull’arte fotografica in generale e sulle sue prospettive future.”

La domanda che Curti si pone nella chiusa dell’introduzione, e che ripete nell’ultimo capitolo, “la fotografia come l’abbiamo conosciuta è ancora fotografia?”, ha una valenza che va al di là dell’oggetto specifico della sua indagine: allo stato attuale dell’arte si potrebbe riproporre per la pittura – le video istallazioni sono ancora pittura? – per la musica – la famosa composizione del 1952 di John Cage “4’.33”, cioè un “silenzio” della durata appunto di quattro minuti e trentatre secondi, è ancora musica? – e così via.

La connotazione fondamentale del lavoro di Curti sta in quell’inciso citato prima: “storia di una passione”. E’ il valore aggiunto del testo, scritto con una partecipazione emotiva che cattura implacabilmente.

La riflessione di Curti, condotta con una perfetta padronanza del panorama storico-culturale in cui la “nuova” forma espressiva si colloca, riconosce il ruolo fondamentale della “mente organizzatrice”, eliminando così ogni equivoco a proposito del controverso rapporto con l’aspetto tecnico. Illuminante a tal proposito, la definizione, da lui riportata, non di un critico o di un artista, bensì di un avvocato, il quale, in una questione riguardante il diritto d’autore, con linguaggio arido, ma efficace, sostiene che: “il fotografo deve innanzitutto avere un’immagine in mente, composta dalla sua fantasia.” Sembra di risentire Voltaire…

La sezione dedicata agli autori da lui maggiormente frequentati, per conoscenza diretta o attraverso le opere di cui si è occupato come saggista o in qualità di curatore di mostre, fornisce al lettore una breve storia della fotografia vista per così dire dall’interno. E lo “spaccato” è quanto mai suggestivo, disegnando una “mappa”, per riprendere un termine da lui utilizzato, di estremo interesse per la varietà dei significati che le sue scelte personali mettono a fuoco. E quando si tratta di artisti a lui particolarmente congeniali, il discorso, senza mai derogare dal rigore scientifico, si fa toccante. Vi sono alcuni grandi nomi stranieri, da Helmut Newton a Capa, da Cartier-Bresson a Salgado, ma in larga maggioranza i fotografi presi in considerazione sono italiani, da Ghirri a Mulas, ai due Jodice, a Letizia Battaglia, a Migliori, Giacomelli e così via, segno inequivocabile, certo, del livello della nostra fotografia, ma anche dell’antiprovincialismo di Curti, il quale non segue le mode correnti, ma opera delle rigorose scelte personali, muovendosi in un contesto globale con una lucidità e una sicurezza impressionanti.

La penultima sezione è dedicata al collezionismo, un argomento quanto mai rischioso, “avendo a che fare – sostiene Curti – con i più oscuri e complessi recessi dell’inconscio, con le nostre spinte più sotterranee di esseri in primo luogo desideranti e a caccia di conoscenza, più di tutto alla ricerca di senso”. Cita subito Benjamin che, nella sua opera canonica, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, parla di “rinascita”, di “rinnovamento”, di cui sono capaci sia i vegliardi come i bambini, i quali collezionando antichi libri o giocattoli, ricominciano ogni volta il “gioco”. Ma, aggiunge Curti, “scoprire e selezionare è bello, mettere ordine nel caos e cercare di istituire un argine al disfacimento, all’oblio, alla morte, ci far star bene”. Dedica molte pagine all’argomento, sia sotto il profilo teorico – l’arte, o la patologia, del collezionismo – sia sotto quello più strettamente legato alla natura di “guida pratica” del libro, riferendo perciò notizie e dati del mercato dell’arte.

 

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