Dieci anni fa il delitto di Yara Gambirasio. L’urlo di Bossetti: “L’assassino è fuori, sono innocente”

25 Nov 2020 12:36 - di Monica Pucci

Dieci anni fa viene uccisa Yara Gambirasio. Di quel delitto resta un’inchiesta record senza eguali in Italia e nel mondo, un processo in cui la prova scientifica diventa protagonista assoluta. Dopo lunghe e complesse indagini raccolte in 60 faldoni, Massimo Bossetti viene condannato in via definitiva all’ergastolo, pena che sta scontando nel carcere milanese di Bollate. Se l’omicidio sembra destinato a diventare una serie tv, la difesa del muratore di Mapello non demorde e continua chiedere a gran voce l’accesso ai reperti. Un ricorso su cui il prossimo gennaio si pronuncerà la Cassazione e che potrebbe segnare il primo passo per un’eventuale revisione del caso.

L’omicidio di Yara Gambirasio all’uscita dalla palestra

26 novembre 2010. Sono le 18.40 circa quando la 13enne Yara esce dalla palestra di Brembate di Sopra, piccolo comune in provincia di Bergamo, e di lei si perdono le tracce. La giovane ginnasta va nel centro sportivo di via Locatelli per consegnare uno stereo, poi il buio la inghiotte lungo i 700 metri che la separano da casa. Alle 18.49 il suo cellulare viene spento per sempre. Le ricerche non trascurano nessuna pista: dall’allontanamento volontario al rapimento. Per quel delitto verrà condannato Massimo Bossetti dopo una lunghissima indagine condotta sul Dna ritrovato sul corpo della ragazzina.

La condanna di Massimo Bossetti e la sua difesa

“Yara non ha avuto giustizia, io sono dietro le sbarre ma non sono il colpevole“. Per chi è in carcere come Massimo Bossetti ogni giorno è uguale a un altro, ma qualcuno ha un sapore più amaro. Sono trascorsi dieci anni dal 26 novembre 2010 quando di Yara Gambirasio, giovane ginnasta 13enne di Brembate (Bergamo), si perdono le tracce. “Io non voglio uscire per un cavillo, voglio uscire perché la perizia sul Dna dimostra che non sono un assassino”, sono le parole che dalla cella di Bollate affida attraverso il suo avvocato Claudio Salvagni all’Adnkronos.

“Sono innocente” sono le parole che Bossetti ripete contro un mantra. Le ha pronunciate ai carabinieri che gli hanno stretto le manette ai polsi; le ha ripetute al pubblico ministero Letizia Ruggeri che lo ha accusato di aver colpito Yara e di averla lasciata morire, dopo una lunga agonia, nel campo di Chignolo; le ha urlate nelle aule dei tribunali che lo hanno sempre riconosciuto colpevole; lo ha giurato alla moglie Marisa e ai tre figli. Anche ora che sta scontando una condanna all’ergastolo, l’uomo che tutta Italia ha imparato a conoscere come ‘Ignoto 1’, continua a non cambiare versione, a negare di aver colpito la 13enne alla testa, di averla accoltellata alla schiena, al collo e ai polsi.

Il Dna che l’assassino considera non suo

“Contro di me c’è un Dna strampalato, sto ancora aspettando le prove vere” dice Bossetti, ‘gelato’ dal dietrofront della Corte d’assise di Bergamo che prima ha consentito e poi negato la possibilità al pool difensivo di visionare i reperti, tra cui gli abiti della vittima e la traccia genetica considerata la ‘firma’ dell’assassino. Il prossimo gennaio la Cassazione si pronuncerà sul ricorso presentato dagli avvocati Salvagni e Paolo Camporini, in caso di accoglimento per la prima volta si potrebbe lavorare alla revisione del processo. Quel giorno, dovesse arrivare, non sarebbe uguale agli altri per Massimo Bossetti.

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