Coronavirus, ecco la prova che non avevano capito nulla, il 50% delle vittime si sarebbe salvato

31 Ago 2020 16:56 - di Roberto Frulli

Il 50 per cento dei pazienti morti per il Coronavirus si sarebbe potuto salvare se i medici avessero capito prima il meccanismo responsabile della elevata mortalità in terapia intensiva.

È uno studio italiano ora spiegare perché sono morte così tante persone.  Sempre che i dati diffusi siano reali visto, in molti casi, la mancanza di autopsie. Ma, anche, a chiarire come si sarebbero potute salvare.

Il futuro per i pazienti affetti da Coronavirus sarà senz’altro diverso. Ma per il passato nessuno potrà ridare  alle famiglie in lutto i propri cari morti in solitudine nelle terapie intensive.

E questo è ancor più terribile se si pensa che due semplici esami avrebbero consentito una diagnosi precoce portando un calo della mortalità fino al 50 per cento.

Lo studio, pubblicato lo scorso 27 agosto dalla rivista scientifica “Lancet Respiratory Medicine”, dimostra che il virus può danneggiare entrambe le componenti del polmone: gli alveoli – le unità del polmone che prendono l’ossigeno e cedono l’anidride carbonica – e i capillari – i vasi sanguigni dove avviene lo scambio tra anidride carbonica e ossigeno).

Quando il virus danneggia sia gli alveoli che i capillari polmonari, quasi il 60 per cento dei pazienti non ha più scampo e muore.

Quando, invece, il virus danneggia o gli alveoli o i capillari, a morire è poco più del 20% per cento dei pazienti.

Il “fenotipo” dei pazienti in cui il virus danneggia sia gli alveoli che i capillari (i cosiddetti pazienti col “doppio danno“) è facilmente identificabile attraverso la misura di un parametro di funzionalità polmonare (la distendibilità del polmone e di un parametro ematochimico .

I risultati hanno importanti implicazioni sia per le cure attualmente disponibili che per i futuri studi su nuovi interventi terapeutici per i pazienti con Coronavirus.

Oggi, infatti, il riconoscimento rapido del fenotipo col “doppio danno” consentirà una precisione diagnostica molto più elevata. E un utilizzo delle terapie ancora più efficace.

Questo permetterà di riservare a questi malati le misure terapeutiche più “aggressive” quali la ventilazione meccanica, la extra-corporeal membrane oxygenation e gli ambienti terapeutici a maggiore intensità di cure quali le terapie intensive.

La ventilazione non invasiva col casco e il ricovero in terapia sub-intensiva sara invece riservata solo ai pazienti con “danno singolo”.

Nel futuro questi risultati consentiranno di identificare rapidamente i pazienti in cui testare trattamenti sperimentali con anticoagulanti per prevenire il danno ai capillari polmonari.

Lo studio è stato condotto su 301 pazienti ricoverati presso il Policlinico di Sant’Orsola di Bologna, il Policlinico di Modena, l’Ospedale Maggiore, il Niguarda e l’Istituto Clinico Humanitas di Milano, l’Ospedale San Gerardo di Monza e il Policlinico Gemelli di Roma.

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