Mitologia, poesia e viaggi: il vino, nettare degli dei che inebria la letteratura, in un libro di Andrea Simi
Splendeva forte un sole sull’isola, brulla
pietraia istoriata di cespi verdi
…….
muovendo passi lenti
andavamo
volgemmo le spalle alla curva
del mare scintillante
(Andrea Simi, Nostos, da “Adespota”)
Mare di vino, l’ultima fatica letteraria di Andrea Simi
Fine giurista (è stato a capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero dell’Economia, oltre che prestigioso manager pubblico). Uomo di buone letture: ma esistono le “cattive” letture? Direi di no. Raffinato traduttore, soprattutto dal greco, nonché autentico poeta. E ancora, grande viaggiatore per mare (da appassionato velista) e, infine, bon vivant, esperto sommelier e chef, Andrea Simi, in questo quarto libro (non volendo contare il più recente, un’elegante plaquette di “Versi d’occasione”, pubblicata in edizione limitata per gli amici), condensa le sue tante conoscenze ed esperienze. Non solo: dà vita a un singolare “portolano” nel quale, sul filo di una prodigiosa memoria, ripercorre itinerari amati, ricordando i sapori dei tanti vini gustati. Il capitolo iniziale è infatti il delizioso racconto del fatale “incontro”, in un’osteria greca, con un… boccale di vino. Il quale recava la scritta: ino, poiemata (vino, poesie), quasi un manifesto programmatico… E l’oggetto, un personale Graal (in fondo, anche Dioniso è un dio!), non lo abbandonerà più.
Un mare dall’aspetto… di vino
Ma, a raccordare fra loro i diversi livelli del testo – è, al contempo, un libro di viaggi, un amabile trattatello di enologia e un diario personale – sono i brani dei suoi amati scrittori. Prima di tutto e più di tutti, i greci. Ma anche Eliot e Pound, Pessoa e altri, tutti ritradotti da lui. Con scelte linguistiche a volte coraggiose. A cominciare dal titolo, Mare DiVino, che non è solo un simpatico calembour, ma la traduzione letterale dell’espressione con cui Omero definisce il mare. Per essere più precisi: il pòntos. La lingua greca ha difatti più termini per designarlo: pélagos, la sua “distesa ampiezza” (secondo Silvestri), tàlassa, la massa d’acqua, als, quello che lambisce le coste. E infine pòntos, vale a dire il mare più profondo, il mare “alto”. Che così descrive lo stesso Simi, con una possente immagine dal sapore mellvilliano: «È il vasto mare al largo, antico e deserto … il mare che giace come un grande animale addormentato». E il pòntos è accompagnato quasi sempre dall’aggettivo òinops, parola composta, come precisa sempre Simi, da òinos (vino) e ops (dalla radice del verbo orao = vedo), tradotto letteralmente dai filologi «dall’aspetto di vino», «di vino a guardarlo», «simile al vino», «vinoso».
Il problema della traduzione del termine
Il problema della traduzione del termine ha costituito un grande rompicapo, arrivandosi a sostenere addirittura che i greci non riuscissero a vedere il colore blu e perciò non fossero in grado di descrivere il mare. È la nota tesi di Gladstone, che fu anche Primo Ministro inglese, della “cecità coloristica” dei greci. Vi è anche la tesi opposta, più interessante da un punto di vista epistemologico, che i greci cioè, e anche Omero quindi, non avessero un termine per il “blu” così come lo intendiamo noi. E perciò non potessero vederlo in natura. Come dire, un ribaltamento dell’antico brocardo: nomina sunt consequaentia rerum; la res cioè non esisterebbe in assenza del nomen per designarla. Dio insomma non avrebbe creato il mare, le piante, gli animali, dando loro, poi, un nome, ma le avrebbe create nominandole.
I colori della mitologia e della letteratura
E a impegnarsi per la soluzione, illustri firme (con l’eccezione di Borges che si sottrae alla dotta querelle, non conoscendo il greco, per rimettersi umilmente alle opinioni altrui) a partire da Goethe, che per primo sollevò il problema nella Farbenlehre del 1810. Fino, ancora oggi, a Stephen Fry, l’eclettico attore, brillante scrittore e colto grecista (autore di due bestseller come Mythos e Heroes). E proprio in quest’ultimo testo, nel capitolo dedicato a Orfeo, il mitico cantore che prese parte alla spedizione degli Argonauti per la conquista (meglio, il furto) del Vello d’oro, nel parlare delle rocce “mobili” che il vascello doveva attraversare, definite “cianee”, ripropone la vexata quaestio. I poeti, consapevoli o meno della querelle fisiologico-filologica, hanno tradotto òinops a volte anch’essi alla lettera: “color del vino”. O “scuro come il vino”, “colore cupo del vino”. O infine, semplicemente, “di vino”. Oppure, volendo trovare un equivalente nella nostra lingua, con “vermiglio”, o “violetto”. Bartolo Cattafi, uno dei maggiori poeti del Novecento, in “Un mare calmo”: Un mare calmo/violetto/tutto riflette della fosca terra…
Simi rilancia la sfida tra filologia e poesia
Simi, da poeta-traduttore, non si sottrae alla sfida e in un certo senso “rilancia”, scegliendo non un colore, ma un carattere, quello che a lui, esperto di acque, oltre che di vini…, sembra peculiare del pòntos: «Omero spesso definisce così l’aspetto del mare … ma in tal modo viene evocata una condizione di luce scura che scatena il maltempo, invece il mare è stato definito òinops anche con tempo favorevole … Quando Telemaco nell’Odissea va alla ricerca del padre: A loro mandò il buon vento/Atena occhiazzurri, uno zefiro fresco, fischiante/su un mare come vino … Quindi credo si possa tranquillamente tradurre òinops in “come vino schiumoso” … senza tradire lo spirito di Omero che, d’altronde, solo pochi versi più avanti, canta così: il vento gonfiò le vele nel mezzo/e l’onda schiumante suonò forte attorno alla chiglia della nave che andava». La sua scelta, oltre che plausibile sul piano poetico, è difendibile su quello filologico, ove si accetti un’altra interpretazione del termine che, basandosi sul fatto che lo stesso aggettivo viene usato nei poemi omerici anche a proposito dei buoi, che, pur se definiti “ebbri”, non si intende che siano… ubriachi, ma metaforicamente che, aggiogati all’aratro, procedano ondeggiando, lo rende con “oscillante in un tumulto irregolare di onde”.
Le suggestioni da illustri precedenti
È una delle tante preziosità di questo libro, suggeritogli da Predrag Matvejevic, il grande scrittore di “Breviario mediterraneo”, ma anche di “L’altra Venezia” e di “Pane nostro”.
E “Mare diVino”, oltre che all’ultimo lavoro di Matvejevic ricordato, si ricollega strettamente ai libri precedenti dell’autore, soprattutto a quello di esordio, del 1999, “Sui sentieri pescosi”, edito da Logart Press, nel quale aveva ripercorso il viaggio di Ulisse, attraverso i riferimenti che Omero fa ai luoghi toccati durante il travagliato ritorno da Troia. Pure in quel caso, mare e versi, tradotti, anzi meravigliosamente rivissuti, con una ricerca attenta del corrispondente ritmo interiore nella nostra lingua. Poi era stato il turno di “Andres, Tre poeti maschi” (Vallecchi, 2007), e qui il lavorio del traduttore aveva fatto un notevole passo avanti, mentre l’acutezza dei commenti critici, e a volte la ricostruzione di senso dei pochi frammenti rimasti, impegnava le notevoli doti di giurista dell’autore, abituato cioè all’esegesi di testi spesso più ermetici, com’è noto, dei responsi dell’oracolo di Delfi…
Le poesie sullo stampo degli “adorati classici”
Mi sono soffermato tanto sulle doti di traduttore di Simi, perché il corpo centrale di “Mare DiVino” è costituito dai brani, poetici o in prosa (ma sempre lirici), da lui riportati nella sua lingua elegante e colta (ricordo un “disperanza” di sapore ungarettiano), che gli fanno da Baedecker in questo suo “vagabondare” (è il termine che usa) per il Mediterraneo, il “Mare Nostrum”, come lo definivano i greci, o meglio ancora, il “Padre mare”. Ma Simi è traduttore, in quanto poeta (per citare l’abusata, ma sempre indispensabile, asserzione di Frost: “essere poeta è una condizione, non una professione”). E, infatti, preso coraggio – l’autore ha fatto dell’understatement la sua cifra stilistica personale, per cui si muove a piccoli passi, in controtendenza rispetto alla pretenziosità di tanti – nel 2012 decide perciò di pubblicare le sue poesie, forgiate, senza mai perdere di originalità, sullo stampo degli adorati classici. Lo fa, dividendo il rischio…, con un amico di versi e di mare, Antonio De Luca, singolare figura di semieremita di Ponza, dove alterna il lavoro al pontile con la cura dei vitigni, per poi partire per lunghi viaggi. Volumetto raffinato, “Adespota” (edito da Vallecchi) con una puntuale prefazione di Matvejevic e una postfazione di un “collega” scrittore/velista, Simone Perotti, contiene liriche splendide per ispirazione e lingua, come attestano i pochi versi che ho posto in epigrafe.
Versi, vino e… il tema de viaggio
In quest’ultimo libro la “trama” si complica, scegliendo Simi non uno ma tre fili conduttori, il mare, i versi e il vino. E la lingua, ormai consolidata, si permette lirismi degni dei suoi modelli. Fra i tanti esempi: le onde rombavano a terra irte di creste frangenti e si ritiravano striate di schiuma; affine, nella cadenza e nella ricercatezza, ai versi di un poeta, “classico” anch’egli, come Cattafi: Accanto al mare/al suo silenzio e richiamo/alle sue alte colonne/di spuma e di fragore. E, legittimamente, insieme con i poeti e scrittori amati, l’autore riporta versi propri e del sodale De Luca, e, devo dire, se non fosse per l’indice in coda al libro, che restituisce la… paternità a ogni citazione, farei fatica a distinguere la loro voce da quella degli antichi poeti, e non perché i versi di Simi e De Luca siano à la manière de, ma perché intimamente impregnati di quello spirito classico che nessuna imitazione potrebbe restituire. Chi voglia scegliere invece… Dioniso, come personale filo di Arianna per seguire l’autore nel suo vagabondare, troverà nel volume puntuali descrizioni, da amateur, dei vini gustati, da quelli più raffinati a quelli carichi di storia, ad esempio i “poveri” resinati, vale a dire con il retrogusto tipico lasciato dalle resine usate un tempo per calatafare i tini. Ma è anche, questo “viaggio alla scoperta di Dioniso”, come recita il sottotitolo, un libro appunto di viaggio. E del grande viaggiatore, Simi ha la curiosità e l’attenzione ai dettagli, che sono poi l’essenziale, oltre che la rara capacità, ancora una volta da poeta, di dare una forma a ciò che vede.