“Fate pace”: il partito dei manettari in campo per ricucire lo strappo Di Matteo-Bonafede
Dal “fate presto” al fate pace”. Smaltito il primo sconcerto seguito al botto Di Matteo vs Bonafede, sull’onda della mozione degli affetti scocca l’ora del keep calm. Fuori i secondi, largo a pacieri, sensali, cerchiobottisti, e teorici del “Madonna, come ci capimmu mali...”. Tutti in fila nel solco del «colossale equivoco» tracciato da Marco Travaglio. Già, il direttore del Fatto Quotidiano ha preso a cuore il caso come una vicenda personale. Da allora, sullo scontro in diretta tv a Non è l’Arena tra il pm della Trattativa e il ministro della (norma) retroattiva, sforna editoriali manco fossero babà. Che li intitoli una volta “buonafede” e un’altra “malafede”, il contenuto non cambia: da Giletti non è successo niente. Quello che hanno ascoltato in diretta i cittadini, prima dalla telefonata di Di Matteo e poi da quella di Bonafede, è pura illusione acustica.
L’appello dell’ex-procuratore Caselli
Il pm, ora al Csm, non ha mai adombrato oblique pressioni in grado di “convincere” il ministro a non nominarlo più alla guida del Dap dopo averglielo proposto. E quand’anche l’avesse detto, non va preso per questo alla lettera. Dopo tutto, Bonafede è del M5S mica di Forza Italia o del centrodestra. La tesi dell’equivoco convince anche Gian Carlo Caselli. «Caro Nino Di Matteo, caro ministro», campeggia nel titolo del suo accorato appello ai contendenti a sotterrare l’ascia di guerra. Nella sua ricostruzione dei fatti, il pm del processo Andreotti introduce una tesi originale.
Derby giustizialista tra Di Matteo e Bonafede
E arriva a sostenere che a Di Matteo sia saltata la brocca nel momento in cui qualcuno in studio, commentandone gli incontri con il ministro sulla nomina al Dap, ha pronunciato la parola “trattativa“. Il che se rende Caselli un fine psicologo, fa di Di Matteo una specie di pugile suonato che si mette in guardia ogni qualvolta risuona un gong. Ma tutto fa brodo in quest’ora di grave imbarazzo per l’antimafia militante. Un derby tra manettari era l’ultima cosa di cui ci fosse bisogno. Soprattutto ora che Conte rischia, che Repubblica ha cambiato direttore e che neanche Travaglio si sente tanto bene.