Coronavirus più buono, anzi no. I virologi, come al solito, si dividono
Le terapie intensive si svuotano, i pazienti guariscono e molti non arrivano nemmeno in ospedale. Così da qualche tempo ci si chiede se il virus di Covid-19 – che finora ha colpito 225.886 persone in Italia, con 32.007 morti – non stia diventando meno aggressivo.
Ebbene, la risposta divide medici, scienziati e gli “esperti” del Cts messo su dal premier Conte. Il fronte convinto che il virus non sia cambiato vede tra i suoi esponenti il presidente dell’Istituto superiore di sanità Silvio Brusaferro: “Non ci sono elementi per poter dire che il virus è mutato. E’ un’ipotesi che va studiata, ma ad oggi non è sostenuta da un’evidenza scientifica”. Di recente, in audizione alla Commissione Affari sociali della Camera, l’esperto ha ripetuto quanto aveva detto nel corso delle conferenze passate.
La posizione dei pessimisti sul coronavirus
Stessa posizione per Walter Ricciardi, consigliere del ministro della Salute per l’emergenza Covid-19, che all’Adnkronos Salute afferma: “Dal punto di vista microbiologico ed epidemiologico, il virus è sempre lo stesso”. Per Enrico Bucci, ricercatore in Biochimica e Biologia molecolare e professore alla Temple University di Philadelphia, il nuovo coronavirus “non è diventato più buono” come alcuni esperti segnalano. “Può certo mutare, ma il cambiamento della composizione della popolazione ospedaliera non è evidenza sufficiente di alcuna mutazione”, afferma in un post sul blog ‘Cattivi scienziati’.ù
Gli ottimisti che Conte non ascolta
Di pare opposto è Matteo Bassetti, direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova, che da almeno un mese sostiene che il virus non ha la stessa intensità: “I numeri si sono ridotti, arrivano meno casi gravi. La mia sensazione di pancia, di chi ha visto il virus in faccia e non è stato dietro una scrivania, è che questo virus ha perso la forza iniziale – rimarca all’Adnkronos Salute – Non c’è ancora nessuna dimostrazione scientifica, è solo l’osservazione di chi lavora in reparto. Io non ricovero più un paziente in terapia intensiva, che arriva dal pronto soccorso, da 3-4 settimane. E’ calato drasticamente il numero dei soggetti che arrivano in ospedale, anche da fuori, con la necessità di essere intubati”.
Sulla scia di Bassetti anche Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri Irccs: “Io vedo questi malati che non sono più quelli di prima. E questa – ha detto in tv l’esperto – non è una cosa piccola, ma è una cosa grande che fa impressione. Adesso stiamo facendo degli studi e non troviamo gli ammalati per fare gli studi, è una cosa bellissima”. Ovviamente, aggiunge, “siamo prudentissimi, perché può darsi benissimo che ci sia una seconda ondata”. Ma per Remuzzi “le persone contagiate oggi stanno decisamente meglio rispetto a quelle infettate due mesi fa”, e se ancora non sa “se è il virus è mutato o se a essere cambiata è la carica virale di ogni paziente”, lo scienziato può intanto affermare che “sembra di essere di fronte a una malattia molto diversa da quella che ha messo in crisi le nostre strutture”.
I prudenti non mancano
Più articolata la risposta di Massimo Ciccozzi, responsabile dell’Unità di Statistica medica ed Epidemiologia molecolare dell’Università Campus Bio-Medico. “Il coronavirus muta perché, da virus, è il suo lavoro quello di mutare e parassitare l’ospite per adattarsi a lui. Abbiamo pubblicato numerose ricerche, firmate dal mio e da altri gruppi, che evidenziano delle mutazioni del virus. Ma la prova per dire che queste mutazioni lo rendano meno aggressivo ancora non c’è”, dice lo scienziato all’Adnkronos Salute.
“Però se vediamo i dati dei ricoveri e delle terapie intensive – aggiunge Ciccozzi – sembra che la malattia stia diventando meno grave. Ebbene, penso che il lockdown e le mutazioni abbiamo lavorato a nostro favore, contrastando la circolazione di Sars-CoV-2 e favorendo il suo ‘adattamento’ all’ospite. Ma questo – sottolinea lo studioso – non vuol affatto dire di abbassare la guardia: dobbiamo continuare a rispettare le misure di distanziamento, indossare le mascherine ed essere attenti all’igiene delle mani”, per non far ripartire il contagio. “Stiamo imparando giorno dopo giorno a conoscere questo virus, che causa una malattia mai vista prima. E non dobbiamo abbassare la guardia”, conclude Ciccozzi.
“La malattia sta cambiando”
Una posizione vicina a quella di Guido Silvestri, docente alla Emory University di Atlanta: “L’ipotesi di una intrinseca riduzione della gravità clinica di Covid-19 in Italia è quella che spiega nel modo più parsimonioso i dati attualmente a nostra disposizione”. In una ‘puntata’ del suo bollettino su Facebook, intitolata per l’occasione ‘Pillola (straordinaria) di ottimismo’, il virologo è tornato “sull’intensa querelle del virus che diventa più buono, sì o no. Quella, per intenderci, per cui Massimo Clementi, Giuseppe Remuzzi e altri sono stati pubblicamente accusati di fare pseudoscienza per aver espresso una loro opinione basata sulle loro esperienze cliniche”.
“Siccome a me piacciono i numeri e i dati – spiega – sono andato un pochino a sfruculiare nei dati pubblici della Protezione civile. Cosi’ ho ‘plottato’ per il periodo dal 29 febbraio al 17 maggio il rapporto in percentuale tra pazienti in terapia intensiva per Covid-19 e totale casi positivi”. Rilevando come “questo valore, che uso come indice crudo della gravità clinica ‘media’ dei casi di infezione con Sars-CoV-2”, sia stato “intorno all’8-10% per i primi 20 giorni dell’epidemia”, iniziando poi a “calare regolarmente: al momento è 1,1%. Questi sono numeri e su questi non si discute”, chiosa Silvestri.
“La malattia sta cambiando, nelle terapie intensive non arrivano più malati all’ultimo stadio – osserva Massimo Clementi, ordinario di Microbiologia e Virologia dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano – Qui siamo in presenza di una malattia simile a un missile con due stadi: il primo è la malattia virale, il secondo è quella patologia che per fortuna non colpisce tutti i positivi ed è la tempesta citochinica. Quest’ultima sembra stia venendo meno. Ed è stato evidenziato anche da quanto scritto da Guido Silvestri – ricorda Clementi – che il rapporto tra il totale dei positivi e i posti in terapia intensiva è passato dal 10% all’1%”.
“La malattia è cambiata – continua il virologo – Ora occorre interrogarci sui motivi che hanno portato a questi dati e ovviamente ci possono essere diverse cause: alcuni trattamenti sperimentati funzionano in qualche modo, curiamo anche meglio i pazienti, sono cambiate le condizioni ambientali e poi c’è un cambiamento del virus, non grossolano come qualcuno ha detto, ma molto poco visibile, forse una proteina”. Potrebbe il virus mutare ancora? “Esiste un co-adattamento tra virus e l’ospite in cui si insedia, quindi è possibili che muti. Dobbiamo guardare con ottimismo al futuro, la ricerca sui vaccini corre”, risponde Clementi.
“Prematuro dire che il coronavirus è più buono”
“E’ prematuro dire ora che il virus è diventato più buono – sottolinea all’Adnkronos Salute Roberto Cauda, docente di Malattie infettive all’Università Cattolica del Sacro Cuore – Questo è un virus a Rna con 30.000 nucleotidi che possono andare incontro a mutazioni, come ha visto fra gli altri il gruppo di Massimo Ciccozzi (in uno studio cui ha collaborato lo stesso Cauda, ndr). In particolare c’è stata una mutazione nella posizione 614, che potrebbe aver portato a una maggior contagiosità del ceppo che circola in Europa e in Italia. Ma anche questa è solo un’ipotesi. Probabilmente il virus”, uscendo dalla Cina, “ha subito un’accelerazione per quanto riguarda la contagiosità, ma è prematuro dire che ora il virus è diventato più buono. I numeri italiani però vanno bene. Forse perché questo virus non va più a briglia sciolta: lo intercettiamo prima e abbiamo imparato a trattarlo meglio. Infine il caldo potrebbe darci una mano, se questo coronavirus si comporta come quello del raffeddore”, conclude Cauda.
“Il virus pare meno aggressivo” anche a Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di Microbiologia clinica, Virologia e Diagnostica delle bioemergenze dell’ospedale Sacco di Milano. L’esperta tiene a premettere che Sars-CoV-2 “dal punto di vista genetico non ha avuto alcuna mutazione”, anzi sembra “un virus che non muta facilmente. Abbiamo fatto sequenze fino alla scorsa settimana – riferisce Gismondo all’Adnkronos Salute – e risulta assolutamente costante”. Tuttavia il patogeno di Covid-19 appare più ‘buono’, con “meno malati gravi e terapie intensive alleggerite da quella pressione che è stato il vero grosso problema di questa pandemia”.
Le genetica e il fattore ereditario
Ma allora perché, se la genetica non c’entra? La microbiologa chiama in causa “un mix di fattori”. La prima possibilità è che il nuovo coronavirus si effettivamente diventato meno aggressivo, “come capita spesso nelle code delle epidemie, dopo che un virus ha circolato a lungo”. La seconda possibile concausa è che “abbiamo imparato a fare diagnosi più precoci e a controllare meglio anche i contatti”. La terza è che, “anche se non c’è ancora ‘il farmaco'”, la pallottola magica, “i clinici hanno più chance terapeutiche e conoscono meglio l’armamentario a disposizione, ossia le molecole che non vanno bene e quelle che in alcuni casi danno dei buoni risultati”. Per Gismondo si tratta dunque di “un fenomeno multifattoriale. Non lo ascriverei – precisa – a nessuno di questi fattori presi singolarmente”.
Burioni: tutto merito del lockdown
“Io non so se il virus è mutato, ma sono mutati gli italiani. Sono molto più coscienti del pericolo e del fatto che con i nostri comportamenti possiamo favorire o impedire il contagio” ha detto il virologo Roberto Burioni, intervenuto a ‘Che tempo che fa’. Il virus è meno potente? “Ancora non lo sappiamo, anche se diversi clinici dicono che vedono quadri più lievi. Noi non abbiamo ancora evidenze scientifiche che questo è accaduto, però la scienza non riesce a vedere oggi quello che è successo ieri. Il numero di casi in calo e i dati molto molto buoni – ha concluso – sono il risultato di quello che è accaduto” 15-18 giorni fa.
Niente più di un virus è in grado di mettere in crisi l’autoreferenzialità della scienza cosidetta e il suo ristretto spazio di visualizzazione che deriva dagli specialismi; con questo non intendo fare discorsi “anti- scientifici”, ma semplicemente dire che la matematizzazione del pensiero e dell’infinitamente dimostrabile introdotta da Cartesio e da essa adottata come vessillo della sua (presunta) incontestabilità, mai come in questo caso vacilli: è infatti insito nella natura stessa di un virus il “riequilibrarsi” per sopravvivere, quindi, pur non abbandonando un approccio “scientifico”, occorre qui una visione più dinamica e d’insieme al problema. La scienza (e gli scienziati) dovrebbe, più umilmente, incominciare a considerarsi ANCHE “conoscenza”: a quel punto le sue conquiste certe ed inoppugnabili si potrebbero sì definire “scientifiche”. Ma ora come ora- mi dispiace- ha dimostrato ampiamente di procedere a tentoni nel buio e non ha garantito in questa pandemia lo straccio di una sicurezza, a nessuno. Anzi, si è lasciata andare ad un pietoso para-piglia fra colleghi, finendo per danneggiare da sola la sua stessa immagine davanti al mondo. Molti di questi virologi sembrano più star televisive che medici. E Tarro ha fatto bene a querelare Burioni: di lui non se ne poteva proprio più. Distinti saluti