Serial Husband, una commedia dolceamara in una Napoli piena di fascino e intrighi
Tempo fa un importante quotidiano ha chiesto a un gruppo di scrittori italiani da dove traessero spunto per i loro romanzi, quale fosse la molla che fa scattare l’ispirazione, o il progetto (non tutti essendo degli scrittori “ispirati”). Non ho potuto non mettere in relazione la domanda, e le conseguenti risposte, con l’incipit di quel bellissimo libro che è Grammatiche della creazione di George Steiner: “Non abbiamo più inizi”. La riflessione di colui che è forse il maggior critico letterario, insieme con Harold Bloom, del ventesimo secolo, attiene a un ambito anche metaletterario, se non addirittura metafisico, vertendo essenzialmente sulla “stanchezza” di questa epoca, incline più a osservare il tramonto che non la nascita delle cose.
Poco oltre, sempre nello stesso libro, Steiner fa invece un’affermazione: “siamo ossessionati dai perché”. Naturalmente i due concetti sono correlati. In un’epoca “sorgiva”, mi si passi il termine… arcadico, non ci si pongono domande, si agisce, si inizia cioè, e basta. E’ nei momenti di declino, che il fare e anche il pensare si problematizzano. Chiunque scriva, oggi, o dipinga, o componga musica, deve affrontare la questione della necessità, dell’imprescindibilità di ciò che fa. In genere, però, individualmente, si tende a rinviare il momento della resa dei conti: un autore alla sua prima prova, narrativa, o drammaturgica, come nel caso di Anna Novikova, potrà avere dei tremori legittimi riguardo alla qualità della sua scrittura o alla densità del suo pensiero, ma non si porrà mai il problema di fondo della ragion d’essere della sua creazione che sente, per sé, come vitale.
Nel caso del teatro, la risposta è apparentemente più semplice. E vorrei servirmi delle parole di Orazio Costa, il più grande regista, insieme con Aldo Trionfo, del Novecento italiano. In un appassionato e rigoroso saggio di Maricla Boggio (appena pubblicato da Bulzoni, il quinto volume, se non ricordo male, a lui dedicato da quella che è stata la sua allieva prediletta), fra le tante testimonianze riportate spicca quella di Fabrizio Gifuni,che ha frequentato la scuola di Costa a Firenze, il quale riporta una frase del Maestro: Il teatro è una delle poche strade rimaste all’uomo per salvarsi.
Non posso non convenire con il “dogma” enunciato da Costa, avendo fra l’altro scritto un lavoro, Amleto prova Amleto (andato in scena nel 2004 al Festival dei Due Mondi di Spoleto, con la regia di Mario Missiroli, altro grande “irregolare” del teatro italiano) il cui protagonista, appunto un regista che trascorre l’esistenza nel tentativo di mettere in scena un Amleto perfetto, è dichiaratamente ispirato a Costa. E’ il Teatro che dà un senso alla realtà degli eventi. Ogni attore, quando è sulla scena, è come un dio creatore. Nominando le cose, dà loro la vita. Prima, c’è il caos, il nulla!
Ma l’attore “nomina le cose” che qualcun altro ha individuato e descritto per lui. Com’è il caso di Anna Novikova, una giovane scrittrice, commediografa e giornalista russa trapiantata a Napoli (non so se per scelta personale o per caso, ma la napolitudine ha certamente forti affinità elettive con l’anima di coloro che, come sosteneva Dostoevskij, “passano in un baleno dal riso al pianto”). Il suo background è di tutto rispetto: laureata in lingue e con un dottorato in economia, è una giornalista internazionale che ha lavorato per Russia Today, ha numerose pubblicazioni sulle riviste e sui media outlet russi, cinesi e americani.
E’ anche autrice di diversi racconti in russo e inglese, nonché di un romanzo e di una sceneggiatura cinematografica in lingua inglese, The Lost Life, e del volume Settore di petrolio e gas russo nel contesto della globalizzazione (pubblicato in Russia e Germania).
Con questa sua commedia, la prima prova perciò nel campo strettamente teatrale, mostra di credere fortemente nella assoluta necessità del richiamo. Serial Husband (scritto in una prima stesura in russo, pubblicata in una elegante edizione da Graus di Napoli) esprime una piena felicità creativa. Il protagonista, Vittorio Vatturello, un tempo fotografo di fama, ormai in declino, marito seriale, sposato e divorziato cinque volte e in procinto di salire all’altare per la sesta, è una sorta di Don Giovanni, un Don Giovanni russo-partenopeo, con l’indolenza di un Oblomov e la rassegnata passività di un Domenico Soriano (il protagonista della edoardiana Filumena Marturano). Non è un rapace seduttore, come il Tenorio di Mozart-Da Ponte, ma un “mammone”, legato visceralmente alla madre, Donna Francesca, al cui dominio cerca di sfuggire sposandosi di continuo, anche perché inesorabilmente sedotto dal fascino femminile nelle sue varie forme.
E’ accompagnato da un giovane assistente, Peppino (un Leporello guaglione) che gli fa da continua, e inutile, coscienza critica. La vicenda, un susseguirsi frenetico di situazioni le più varie, nella migliore tradizione della pochade, o della farsa (dato il contesto in cui ci si muove), si svolge in una Napoli che la Novikova mostra di conoscere in profondità, nei suoi vezzi e nei suoi vizi, nelle sue debolezze e nella sua forza.
Intorno ai due personaggi principali, una ridda di “caratteri”, tutti ben disegnati, i quali compongono un microcosmo, per lo più operante all’interno di un appartamento, quello della madre del protagonista, efficace metafora del “cosmo” che sta fuori, nelle strade, nei vicoli della Napoli di Viviani ed Edoardo, insieme eterna stracciona e sontuosa nobildama.
L’autrice di Marito seriale, pur essendo un’esordiente come commediografa, dimostra di possedere un raffinato mestiere che le consente di padroneggiare con sicurezza il susseguirsi incalzante degli innumerevoli colpi di scena. Ma non è un mestiere fine a se stesso, bensì al servizio di una fresca ispirazione con la quale dà vita a figure indimenticabili: Vittorio e Peppino, per primi, Donna Francesca, imponente matriarca, severa fustigatrice della pigrizia del figlio, ma sempre pronta a preparargli il “migliore caffè di Napoli”, e poi la signora Rosa e le due sorelle, donna Carmelina e donna Teresina, entrambe zitelle, ma l’una convinta e l’altra no, e le varie mogli, passate (in ordine di divorzio…) e future, che offrono un divertente affresco di quelli che secondo l’autrice sono alcuni prototipi della donna moderna: Maria Concetta, suora e ninfomane (un mix politically incorrect, ma esilarante), Paola, attivista, femminista, vegana e animalista, Elisabetta, giovane, bella ed elegante, diventata magistrato dopo il divorzio (apparentemente l’unica ad aver superato il trauma della separazione in modo equilibrato e costruttivo), Filomena, con un abbondante seno rifatto e una visione leggera dell’esistenza (evidentemente disponibile a vendere il suo corpo al miglior offerente), Assunta, la quinta e più giovane (pour cause), oltre l’unica ad aver lasciato Vittorio; e infine la candidata a diventare la sesta sposa, Rosaria, truffatrice seriale, insieme col fratello Apollo (nomen omen) di irresistibile bellezza. Ma anche le “comparse”, Virgilio Alighieri, supervisore carcerario, e i due carabinieri e i due infermieri, sono tratteggiati con cura e umana simpatia.
Anche se la presenza dei personaggi femminili è preponderante, vi è ne Il marito seriale una non comune capacità di comprendere la natura dell’uomo. Inoltre Anna Novikova dimostra di avere una istintiva, spiccata attitudine alla regia: le didascalie del testo sono infatti anche delle precise indicazioni per chi vorrà metterlo in scena. Non sarà facile, soprattutto per il numero dei personaggi, difficilmente sopprimibili; non si tratta infatti soltanto di elementi utili o necessari allo svolgimento dell’azione, ma di componenti una “coralità” che è la natura specifica di questa commedia.