“Biscotti della fortuna”, ecco i nuovi racconti di Gabriele Pedullà per Einaudi

3 Mar 2020 18:18 - di Rocco Familiari

Biscotti della fortuna, ecco i nuovi racconti di Gabriele Pedullà. Nel recensire la sua prima prova narrativa, i racconti pubblicati da Einaudi nel 2009 col titolo di uno di essi, Lo spagnolo senza sforzo, mi ero chiesto quando il giovane autore, anche brillante critico letterario e docente, sarebbe approdato al romanzo. Avevo colto infatti, in tutte e cinque le storie riunite nel volume, il respiro del… fondista, vale a dire una forza rattenuta che voleva altro spazio davanti a sé.

“Biscotti della fortuna” arriva dopo “Lame” e “Lo spagnolo senza sforzo”

E, infatti, nel 2017, Pedullà dette alle stampe un romanzo, Lame (anche quello, un Einaudi) che, pur in dimensioni contenute, si sviluppava secondo quelle che sono le regole proprie e specifiche di ogni romanzo (al contrario di quelle “generali”, partorite da pensosi custodi del “canone”, che un vero scrittore deve invece trasgredire), raccontando con un linguaggio di rara precisione, sobrio e controllatissimo, una vicenda minima, ma capace di evocare situazioni complesse: “Una potente metafora” – come allora la definii – “dell’ illusorio dinamismo del mondo attuale”.

“Biscotti della fortuna” è il terzo libro di Pedullà

E ora, in questo terzo libro (dopo aver nel frattempo pubblicato, nell’altra sua veste, un ponderoso saggio su De Roberto), ecco che torna alla forma racconto, nella quale si trova evidentemente più a suo agio, ma con una consapevolezza maggiore degli strumenti di cui dispone. Il risultato è ancora una volta sorprendente. L’originalità dell’ispirazione (è permesso usare ancora il termine…?), intatta e fresca come nel primo libro, è messa in evidenza da una scrittura ancora più essenziale e densa al tempo stesso, poetica, non nell’accezione di “lirica”, ma in quella di “contratta”, chirurgica, come viene usata per esempio da due poeti a me cari, pur assai diversi fra loro, Cattafi e Szimborska.

Il filo conduttore è quello che si potrebbe definire uno “scarto laterale”. Fra il ritmo del singolo racconto e la sua conclusione, che arriva inaspettata, anche se, alla luce del poi, non si può non convenire che era la sola possibile. In fondo la differenza fra il romanzo e il racconto è che nel primo il lettore può distendersi, per così dire, allungare le gambe…, come in un viaggio in treno, nel quale si ha il tempo di sentire la distanza che si percorre, si può allargare lo sguardo intorno, osservando una realtà che muta continuamente.

Un libro che va letto con concentrazione

Nel racconto, invece, sempre per utilizzare la metafora del viaggio, si è su un aereo, contratti su un sediolino, e non si ha neppure il tempo di capire che si sta volando a diecimila metri di altezza, su un tappeto uniforme di nuvole bianche, che, ecco, il velivolo inizia a scendere e dopo una serie di sussulti, più o meno forti, a seconda dell’abilità del pilota, saltella sulla pista di atterraggio. Il “raccontatore” è insomma più dispotico del romanziere, costringendoti a stare inchiodato al suo gioco. E Gabriele Pedullà, nei suoi Biscotti della fortuna, rigido osservante della regola…, pretende massima concentrazione e ti impone di seguire il percorso che lui ha tracciato.

In uno di quelli a mio parere più riusciti (ma poi, a rileggerli, sono uno più… riuscito dell’altro), A febbraio o a settembre, la premessa è ampia, il ritmo, l’andamento sono distesi (almeno da romanzo breve). L’io narrante, in questo caso molto, davvero molto, vicino all’io privato, quello della persona che scrive, fa entrare il lettore in un campo da sempre coltivato con passione, quello del cinema – Pedullà ha scritto nel 2008 In piena luce, un ampio saggio sulla decima musa, sorprendente per la vastità dei riferimenti culturali – che diventa uno dei fulcri del racconto.

La New York ricreata da Pedullà

L’altro è New York, descritta come meglio non saprebbe uno scrittore “indigeno”, da sempre vissuto nella grande mela. L’autore vi ha abitato per lunghi periodi come fellow (e nel racconto il protagonista è appunto un fellow, vincitore di una borsa di studio), ma è riuscito a introiettare la città non soltanto come luogo fisico, ma anche come luogo mentale, e a ricrearla, nel racconto, in un modo tale che qualsiasi lettore può sentirla sua. Ebbene, dopo questa maestosa ouverture, in cui si intrecciano sapientemente vari temi – oltre a quelli già detti, il dramma dell’11 settembre – ecco che la conclusione giunge secca, netta, come un taglio.

Sulle prime si resta delusi, si prova anche rancore verso la crudeltà dello scrittore, salvo poi, a mente più fredda, una volta divincolati dalla pania in cui la sua scrittura ci ha imprigionati, riconoscere che non si tratta di una decisione presa a tavolino, o, meglio, sul… tablet, ma della soluzione obbligata di un rigoroso teorema narrativo.

Pedullà si muove si registri alti

In Rouge 89, il sostrato culturale del racconto (come si è capito, Pedullà si muove su registri alti, concedendo poco o nulla alle esigenze di mercato che pretenderebbero argomenti e modalità narrative piuttosto… terrestri) è costituito invece da quello che è il bagaglio di ogni intellettuale impegnato, letteratura, musica, arte, proposto però da una prospettiva inusuale e forse anche sconcertante, quella consentita da un devoto pellegrinaggio fra le tombe del Père Lachaise, il cimitero monumentale di Parigi, che raccoglie, post mortem, il meglio della cultura mondiale…

Il percorso prevede una sosta obbligata davanti ai sacelli di alcune star, Jim Morrison, il più frequentato, Isadora Duncan, la famosa danzatrice, di cui tutti sanno com’è morta (strangolata dalla sua lunga sciarpa, rimasta impigliata fra i raggi di una ruota della sua cabriolet), ma pochi della sua importanza per lo sviluppo della danza e del teatro moderni (le devono tanto anche due icone della scena contemporanea come Pina Bausch e Lucinda Childs), e Oscar Wilde, eroe, malgrè soi, della battaglia contro le discriminazioni sessuali.

Dopo una “passeggiata” in un ambiente pour cause accogliente…, e divagazioni apparenti dei due protagonisti del racconto, ecco la staffilata finale, ancora una volta inattesa, che introduce un elemento drammatico in un contesto che fino a poco prima appariva quasi divertente.

Scrittura raffinata

In un altro, Il re, forse quello esemplare del modo con cui l’autore sa piegare la sua raffinata scrittura, la stessa che usa come saggista, alle esigenze espressive del racconto, rendendola più densa, con una ricerca attenta di termini desueti, ma assolutamente pertinenti, e un uso accorto delle figure retoriche che la sua sapienza professionale gli mette a disposizione, tutto il racconto, fino alla parola finale, si muove su un registro che richiama il Buzzati de Il deserto dei tartari.

Ecco però che una semplice parola, la più semplice, della nostra, come di tutte le lingue conosciute, la cui radice è identica in centinaia di idiomi (c’è una dotta e intrigante poesia di Guido Ballo costruita su tali affinità), modifica radicalmente la chiave di volta della narrazione. Come se Campanile si fosse sovrapposto a Buzzati. Lascio volutamente al lettore il piacere di scoprire di che parola si tratti…

Un aroma di mistero

Il racconto conclusivo, Biscotti della fortuna, che dà il titolo al volume, pur seguendo lo stesso schema, introduce un elemento ulteriore, un aroma di mistero che rende il tutto più intrigante.
Mentre nei racconti de Lo spagnolo senza sforzo vi era un’attenzione quasi ossessiva a non far uscire il racconto dalla pagina, nel senso cioè che il tutto si svolgeva e si sviluppava nella scrittura, senza concessioni, neppur minime, all’aspetto per così dire emotivo, in questi ultimi vi è un tocco di leggerezza, di divertissement, come se l’autore abbia ritenuto di poter allentare le maglie per far affiorare brandelli di realtà, che siano fatti di cronaca o storia recente, oppure vicende private.

Scrittura senza manierismi

Sul piano formale emerge ancora una volta, come connotato incontrovertibile della cifra stilistica di Pedullà, quella che definirei l’aristocraticità del suo linguaggio. Senza ermetismi o manierismi (vi è qualche ricercatezza, ma mai di troppo) a cui non riescono a sottrarsi quasi tutti gli scrittori contemporanei, neppure quelli che apparentemente “maltrattano” la lingua, la sua scrittura si mantiene a un livello difficilmente raggiungibile. Sotto il nitore della frase non si avverte affatto la complessa tessitura, frutto del lavorio accurato, tormentoso, ma invisibile, di quello che è senz’altro il più dotato fra gli scrittori della sua generazione e non solo.

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