Trasformismo e proporzionale: la miscela rovinosa del cocktail giallorosso
Nel declinare di questo torrido settembre il mestiere del politologo sembra diventato in più difficile e arrischiato fra tutti. Fino a dieci giorni fa tutto sembrava pacificamente sistemato nel nuovo assetto della politica italiana uscito dal fulmineo parto del governo Conte bis e della sua inedita maggioranza. Quasi scontata veniva reputata dagli analisti patentati la lunga e inossidabile durata nel tempo della coalizione giallorossa, in grado non soltanto di tagliare il traguardo dell’elezione presidenziale del 2022, ma anche di traghettare amabilmente la legislatura fino alla sua fine naturale.
La grande stampa ha anche dato l’impressione di aver digerito e metabolizzato senza sussulti il fatto che la nuova maggioranza fosse nata da un’orgia di trasformismo, che aveva accomunato nelle scelte tutte indistintamente le varie componenti della innaturale coalizione. Si aveva quasi l’impressione che, preso atto che la carta costituzionale non appresta anticorpi alle acrobazie trasformiste, il fenomeno fosse ormai accettato come endemico e connaturato alla natura stessa della democrazia italiana. In questo clima di spento fatalismo, veniva dato anche come scontato che il nuovo corso della politica improntato all’insegna del trasformismo più sfrenato fosse corredato da una riforma della legge elettorale in senso puramente proporzionale.
Uno strumento indispensabile cioè per poter “istituzionalizzare”, in una prospettiva di più lustri, la regola dell’inciucio, dei ribaltoni e delle piroette nella formazione dei governi, visto che il proporzionale conferisce ad una formazione del 2 o del 3 per cento il potere di ricattare ed essere determinante nella dialettica politica. Poi, improvvisamente, dieci giorni fa, Renzi imprime uno scossone a questa oasi fittizia di quiete decidendo una scissione che si porta dietro, dalla casa del Pd, più di quaranta parlamentari. I quotidiani custodi dell’establishement, di fronte al terremoto che scuote la sinistra, cadono per quasi 48 ore in una forma di smarrita catalessi. La notizia viene relegata nell’ambito della cronaca asettica.
L’imbarazzo dei cronisti si avverte ben palese nella prudenza con cui parlano di “uscita di Renzi dal Pd”, come se il partito del Nazareno fosse un albergo ad ore un po’ equivoco abituato all’andirivieni in entrata ed uscita. Guai, sembra essere la parola d’ordine del momento, a parlare di scissione a sinistra! C’è tempo, sembra essere questa la cauta intesa, per affidare ai politologi il compito di analizzare e interpretare la svolta inaspettata nella sua incidenza, prossima o futura, sulla tenuta della maggioranza. Nei giorni seguenti, si ricorre al ripiego di illustrare la materia nella tecnica e nello stile propri del giornalismo sportivo, quando di dà notizia sulle ultime acquisizioni e cessioni del mercato calcistico.
Vengono ad esempio fornite dettagliate biografie di due ministri, di cui una in sovrappeso, di un sottosegretario e di 41 parlamentari che hanno seguito Matteo Renzi nella nuova avventura di Italia Viva. Da largo del Nazareno, in risposta, si annuncia con enfasi l’”acquisto” di un’ex ministra della Sanità. Ma non risulta ancora chiaro, fuor di metafora, quale delle due “formazioni” interpreti realmente, nello scenario della sinistra, il ruolo della Juve o della Fiorentina.
Passa un buona settimana prima che gli osservatori della politica prendano a valutare con crudo realismo la portata della nuova svolta.
Sul Corriere Antonio Polito, politologo certamente non sospettabile di feeling a destra, il 18 scorso ammette che “il colpo preso dal Pd è serio, Nato per unire culture progressiste diverse, le vede invece dividersi ulteriormente. Concepito per avere un’ambizione maggioritaria, si è ridotto a sperare in un ripristino del proporzionale puro per poter trovare alleanze”. In verità alla radice della crisi del sistema politico italiano c’è l’accettazione diffusa, avallata anche dal sistema mediatico, dell’ineluttabilità del trasformismo, adottato dalle sinistre come strada utile e indispensabile per riuscire a raggiungere la sopravvivenza e conservare le leve del potere, ad onta della perdita di consenso.
Di qui la scelta della sinistra di optare decisamente per una legge elettorale puramente proporzionale, in quanto questa risulta la più consona a circoscrivere nel quadro parlamentare e delle manovre di Palazzo la gestione del potere. Realizzando per questa strada l’ossimoro “democratico” di un potere di governo svincolato dal consenso elettorale. Emerge qui la stortura, tenacemente perseguita in settant’anni di storia repubblicana, di considerare la legge elettorale come una sorta di optional utile a “correggere” i temuti mutamenti di indirizzo della volontà popolare. A sostegno di questa interpretazione ballerina della legge elettorale si è invocata sempre e ipocritamente l’esigenza della governabilità e della stabilità, obiettivi sacrosanti questi ultimi, ma solamente se uniti inscindibilmente con quello di garantire l’operatività reale della volontà espressa attraverso il voto. In tal senso può risultare utile un’attenta conoscenza della storia dell’Italia repubblicana. “In settantacinque anni – scriveva poche settimane fa sul Corriere Paolo Mieli – non è mai successo che la sinistra sia andata al potere in seguito da una vittoria elettorale. Con l’unica eccezione del 1966 quando vinse l’Ulivo con Romano Prodi, la sinistra è sempre andata al governo grazie a manovre parlamentari giustificate dalla necessità di far fronte ad emergenze”.
Negli stessi giorni in cui si andava materializzando, col connubio giallorosso, il trionfo del trasformismo, Pierluigi Battista, sempre sul Corriere della sera, ricordava, che “dal 2011 ad oggi si contano ben otto governi che non hanno alcun nesso logico e politico con il mandato popolare, allora è inutile negare che la crisi della democrazia passi anche da questa eccezionalità che diventa routine”.
In questa prospettiva, appare evidente e logico che la sinistra, da Zingaretti fino a Renzi, punti tutto sulla carta vincente di una legge elettorale interamente proporzionale, perché soltanto attraverso questo strumento la prassi del trasformismo le potrà consentire, grazie al processo progressivo di frantumazione del quadro politico, di conservare nel tempo l’egemonia nella formazione dei governi.
L’analisi più pertinente della china rovinosa apertasi con l’avvento della stagione del trasformismo trionfante nello scenario della politica italiana l’ ha tracciata Ernesto Galli della Loggia con due editoriali apparsi sul Corriere della Sera a distanza di appena dieci giorni l’uno dall’altro. Nel primo, il politologo parte da un rigoroso inquadramento storiografico del fenomeno, sottolineando che siamo assistendo al completo rovesciamento del disegno del vecchio partito comunista, da cui in qualche modo il Pd discende: “Laddove il togliattismo – scrive Galli della Loggia – prevedeva che alla lunga il Pci riuscisse a egemonizzare l’establishment italiano, oggi viceversa è l’establishment italiano che appare essere riuscito ad egemonizzare il Pd. Sotto l’etichetta della difesa della Costituzione i Dem sono diventati il vero partito delle élite della penisola, quello che ne raccoglie in misura maggiore il consenso elettorale (basta vedere come votano i quartieri alti delle grandi città)”. Dove per élite l’editorialista del Corriere intende chiaramente non già l’eminenza del merito o dell’iniziativa imprenditoriale, ma l’immobilismo inerte dell’establishement, sempre più omologato con la casta del privilegio cristallizzato.
“Chi crede davvero che le sorti della democrazia italiana fossero a rischio – conclude Galli della Loggia – cioè che si fosse alla vigilia di non poter più tenere elezioni libere, stampare giornali contro il potere, che gli oppositori e gli organi costituzionali fossero sul punto di essere minacciati fisicamente – perché questo significa emergenza democratica, il resto sono chiacchiere – chi crede davvero ciò fa benissimo a giustificare tutto, e dunque anche il trasformismo. Ma chi non condivide l’allarme ora detto ha il dovere di dire che si tratta solo di semplice, banalissimo trasformismo”. Probabilmente la sinistra italiana non si è ancora resa conto che la libera opinione della gente comune ha ormai ben chiara quale colossale bufala nasconda la tesi dell’”emergenza democratica”, chiave giustificatrice di ogni pasticcio e inciucio parlamentare e di Palazzo. Ma è da temere altamente l’ira di chi scopre di essere vittima di una truffa. Perché, prima o dopo, alla resa di conti del voto si arriverà.