Strage Bologna, chi ha paura di stravolgere le tesi precostituite?
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
Suscita una sensazione inquietante ascoltare il presidente dell’Associazione vittime e familiari del 2 agosto ’80, il quale afferma che il ritrovamento di due distinti “dna” tra i resti di Maria Fresu non cambia nulla nel processo in corso a carico di Gilberto Cavallini e in quelli celebrati precedentemente contro gli altri Nar accusati della strage. C’è grande differenza, infatti, tra pretendere il rispetto delle sentenze passate in giudicato e il rimanervi abbarbicati come su una trincea da difendere a qualunque costo, a dispetto anche di precise risultanze investigative che sono state disposte da una Corte d’assise chiamata a valutare i fatti, non solo di mere ipotesi (per altro, a loro modo comunque legittime) giornalistiche o della difesa. La notizia del “doppio dna”, se Paolo Bolognesi fosse uomo intellettualmente onesto, avrebbe dovuto indignare proprio lui in prima persona: non fosse per altro, per la conferma di come, in quel tragico 2 agosto e nei giorni immediatamente successivi, i poveri resti delle vittime dell’attentato fossero stati frettolosamente trattati. Non è elemento secondario, infatti, il trattamento dei corpi delle vittime, in questa vicenda: se tanti dubbi persistono sulla dinamica dell’attentato, molta colpa fu delle pressioni che ricevettero i medici legali, invitati senza mezzi termini a chiudere le bare e impedendo loro una seria analisi necroscopica che, anche coi mezzi scientifici del 1980, avrebbe potuto dare risposte esaurienti, per esempio, sulla miscela esplosiva usata dai terroristi. Perché, invece, tanta rabbia per un risultato, questo sui resti di Maria Fresu, tutto sommato scontato e annunciato? Perché è evidente che, se qualcuno ha nascosto dei resti che non appartengono a nessuna delle altre vittime, quegli stessi resti non possono che essere quelli dell’attentatore o di uno degli attentatori. Una cosa, per altro, dev’essere smentita: esiste una fotografia dei resti che furono nascosti nella bara della Fresu e che oggi, dopo quarant’anni, si presentano fatalmente come poco più di un grumo di materiale organico. In quella macabra foto scattata all’epoca, si vede un esteso lembo facciale (comprendente una parte dell’arcata oculare, del naso, delle due labbra e di parte dello zigomo), dunque, è certo che quei resti – contrariamente a quanto va affermando adesso l’avvocato Andrea Speranzoni, legale di fiducia di Bolognesi -, se il “dna” non li attribuirà alla Fresu, non possono appartenere a nessun’altra delle 85 vittime riconosciute. E questo – piaccia o meno a qualcuno fin troppo affezionato alle sentenze passate – cambierebbe radicalmente la scena del crimine, poiché non esistono “dispersi” nella strage di Bologna e tanto meno denunce di scomparsa che potrebbero spiegare la presenza di un’innocente vittima numero 86. Quei resti apparterrebbero a persona che morì il 2 agosto ’80, alla stazione di Bologna, ma di cui non si ritenne di dover denunciare la morte o verificare l’identità. Per quale motivo? Tocca ora al processo in corso rispondere a questa domanda, sempre che non si voglia trasformare questo processo in un ulteriore depistaggio.