Eugenio Montale, dalla canzone alla sublime poesia che gli valse il Premio Nobel

25 Set 2019 11:40 - di Massimo Pedroni

Riceviamo e volentieri pubblichiamo.

“Cartolina” degli anni “10 del secolo scorso. Località Monterosso sul mar ligure delle Cinque Terre. Tre adolescenti Eugenio, Alberto e Salvatore, pomposamente vestiti con accappatoi bianchi lunghi fino ai piedi, cantano con voci dispiegate passioni ed emozioni, che data la loro giovanissima età ancora non conoscono appieno. Amori, tradimenti, tresche. Due cantano il terzo dirige. Di volta in volta si alternano nei ruoli. I ragazzi sono figli di una famiglia appassionata di melodramma. Gli adolescenti sono I giovani Montale. Dei tre in seguito, Eugenio, otterrà il Nobel per la letteratura.

Questo spaccato di vita famigliare è riportato da Carlo Emilio Gadda in un articolo apparso sul “Il Tempo” nel 1943. Il bel canto, la musica, il melodramma contagiavano nell’avvicendarsi delle generazioni i componenti della famiglia. “La prima opera da me ascoltata fu “La Sonnambula”, in un teatro in cui tra un intervallo e l’altro si bevevano gazzose con il pallino”. Ricordò in seguito il poeta. Non ebbe modo di vedere quella rappresentazione dell’ Opera di Vincenzo Bellini fino in fondo. Rientrarono prima per la decisione paterna di non fare tardi per la cena. Il seme comunque era stato gettato. “Quel regno di fuochi fatui e cartapesta”, non lo abbandonerà più. Ineluttabile fu per il poeta la decisione di studiare canto. Non si esibì mai “professionalmente” in pubblico. Era un ”basso” naturale con una voce corposa. A detta del suo Maestro ex baritono Ernesto Sivori. Montale racconta che lo stesso Maestro gli diagnosticò, per così dire, “l’axillo” . Miscela propulsiva di talento e indomabile passione per la musica. A Genova il 12 ottobre 1896, in un contesto borghese, da Domenico Montale e Giuseppina Ricci, ultimo dei sei loro figli nacque Eugenio. A causa della sua cagionevole salute, i genitori lo istradarono verso studi più leggeri di quelli “classici”. Si diplomerà infatti Ragioniere. Data la sua formazione scolastica di natura tecnica, le sue letture, intense, furono quelle dettate dalla curiosità e l’entusiasmo dell’autodidatta. Allo scoppio della Grande Guerra, dopo aver superato ben quattro visite, nel 1917 fu dichiarato idoneo. Chiese e ottenne di andare in prima linea.

E proprio nel 1917, che prese corpo la “conversione” di Montale, da potenziale cantante interprete del Melodramma a Poeta. Molla scatenante, di questa modificazione del proprio progetto esistenziale, non a caso è la musica. L’ascolto di “Le menestreles” e “Les collines d’Anacapri” di Claude Debussy lo colpirono in modo irreversibile. Era una musica nuova, a lui ignota “Musica senza rumore/ che nasce dalle strade/ s’innalza a stento e ricade”. L’intreccio magico e misterioso tra Musica e Poesia, da realizzare con attento equilibrio, fu un intendimento perseguito fin dagli inizi. Trasparenti riferimenti alla musica, li possiamo trovare in alcune sue raccolte poetiche quali Accordi, o in titoli di poesie quali Ritmo, Suonatina di pianoforte. “Ossi di seppia” del 1925, edito da Pietro Gobetti, fu la raccolta che lo pose all’attenzione della comunità letteraria. Il male di vivere, l’impossibilità del poeta di dare risposte alle inquietudini dell’animo umano articolate ed esaustive. Temi dominanti. Simili agli “Ossi di seppia”, i frammenti, dell’illuminazioni poetiche, nel mare dei dubbi esistenziali affiorano tra i marosi della vita. Relitti anche loro. Rispetto alla “Divina Provvidenza” di manzoniana memoria, Montale ribalta il concetto in “Divina indifferenza”. Nel 1927 il poeta si trasferisce a Firenze. Città dove visse fino alla fine della seconda guerra mondiale, trasferendosi quindi a Milano dove ebbe l’incarico di critico musicale del Corriere della Sera. L’atmosfera fiorentina dei primi decenni del secolo scorso,era un costante zampillare di riviste culturali, pubblicazioni di poesie,letteratura. Le edizioni de “La Voce” le prime prove poetiche di Ungaretti su “Lacerba”. Contenitori nei quali prendevano forma le istanze della Poesia nazionale del tempo. Punto di ritrovo degli artisti che vivono a Firenze è il “Caffè delle Giubbe Rosse”. Montale incluso ovviamente. Ha modo così di conoscere tra gli altri Elio Vittorini, Carlo Emilio Gadda e altri del mondo intellettuale che ruota attorno alla rivista Solaria alla quale collabora. In risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti promosso da Giovanni Gentile nel 1925, Montale firmò quello degli Intellettuali antifascisti organizzato da Benedetto Croce nello stesso anno. Durante il Regime con aristocratico distacco, conservò la sua posizione politica. Materia, la politica, alla quale non riservava grande attenzione. Come forse è naturale che sia per un poeta che aveva centrato il suo fare, così come riportiamo ”L’argomento della mia poesia … è la condizione umana in sé considerata non questo o quello argomento storico”.

Nel 1939 pubblica la raccolta “Le Occasioni”, l’universo che descrive è senza speranza. Lo guarda compassionevolmente. “La bufera” è del 1956, temi della guerra e di addoloramenti. “Xenia” è una raccolta pubblicata nel 1966 dedicata alla moglie, Drusilia Tanzi deceduta tre anni prima. “Satura” è del “71. Nel risvolto di copertina della edizione Mondadori a cura di Marco Forti possiamo leggere “… ha ritrovato … la varietà e la frondosità e la molteplicità timbrica … che già negli “Ossi di seppia” costituirono la sua sorprendente novità”. L’insanabile iato esistente tra l’individuo e il mondo, è la frattura che determina a suo avviso il male di vivere. Oramai celebre, punto di riferimento poetico indiscutibile nel 1975 gli fu assegnato il Premio Nobel. “Per la sua poetica distinta con grande sensibilità artistica che ha interpretato i valori umani privi d’illusioni” così recitavano le motivazioni. L’eco in noi dell’incipit di una celebre poesia di “Ossi di seppia”, a questo punto va in automatico “Meriggiare pallido e assorto … “

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