Di Maio faccia gli scongiuri: il Pd ha iniziato a trattarlo come Alfano

3 Set 2019 17:21 - di Marzio Dalla Casta

Che Luigi Di Maio avesse tutte le carte in regola per diventare l’Angelino Alfano del Conte-bis era un sospetto che già correva sottotraccia, pronto ad insinuarsi nel cuore e nella mente dei militanti grillini. Ma è toccato a Giorgia Meloni dare corpo ai tormenti dei Cinquestelle con un retroscena condensato in un tweet di rara perfidia, quasi un epitaffio: «Il Pd –  ha  scritto la leader di FdI – avrebbe proposto a Di Maio la poltrona di ministro degli Esteri. La stessa che aveva dato ad Alfano». Chiunque rabbrividirebbe, figuriamoci i superstiti dell‘anti-Casta. Ma neppure loro potrebbero negare che dell’ex-ministro centrista senza quid e senza quorum, Giggino possiede senz’altro il formidabile senso per la poltrona. Se il primo ne ha occupate ben quattro – Giustizia, Interni, Esteri e vicepremier – infilando un filotto sfuggito persino ad uno specialista del ramo come il Divo Giulio, Di Maio non è da meno: capo politico, vicepremier, ministro del Lavoro e delle Attività produttive, tutte in un colpo solo. Pare che non potendole occupare contemporaneamente fosse costretto a girare a… terga alterne. Ma se tanto ci dà tanto, manca solo un tassello, una sola parola, per completare il mosaico: trasformismo, cioè quel viziaccio tutto italico che consente ad un politico di surfare sempre sulla cresta dell’onda. Anche qui la somiglianza tra i due è impressionante. Da pupillo di Berlusconi, Alfano non esitò a reggere il moccolo a quelli che espulsero dal Senato il suo antico mentore. Di Maio intraprenderà probabilmente il percorso inverso, e da nemico del Cavaliere non esiterà ad accettarne il soccorso in Parlamento ogni qualvolta vacillerà la raccogliticcia maggioranza che si appresta a varare con ZingaRenzi e la Boldrini. Un brutto epilogo. Ma in politica può succedere. Soprattutto se la convenienza è più forte della convinzione o, a dirla tutta, quando il culo conta più della faccia

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