Luci e ombre del modello austrialiano per chi decide di emigrare dall’Italia
Da Antonio De Angelis riceviamo e volentieri pubblichiamo
Mai come in questo periodo storico la cosiddetta “questione migranti” richiede con urgenza l’attuazione di leggi appropriate da parte dei Paesi che, in un modo o nell’altro, questa immigrazione la subiscono.
Negli Stati Uniti, il presidente Donald Trump ha progettato la realizzazione di un gigantesco muro al confine con il Messico, per mettere un freno al continuo passaggio di chi cerca un futuro migliore in terra americana. Nell’est europeo, due barriere di filo spinato hanno impegnato in questi anni l’Ungheria nel tentativo di bloccare i migranti sul doppio fronte serbo e croato. E altro filo spinato, oltre 40 chilometri, lo ha srotolato anche la Slovenia, per arginare l’immigrazione clandestina. In Italia, il dibattito sta assumendo contorni sempre più aspri e surreali, come dimostra il braccio di ferro tra le Ong, che trasportano migranti via mare e il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, che ha disposto la chiusura dei porti. E a proposito di navi, c’è chi, come Fratelli d’Italia, sta lavorando a una proposta di legge che ne preveda il sequestro immediato e la demolizione nel caso di mancato rispetto dei confini e delle norme nazionali.
Il tutto davanti allo sguardo distratto e superficiale dell’Europa.
Il “modello australiano” e il nuovo Rapporto Comites
Respingimenti e stop agli sbarchi caratterizzano anche la politica dell’immigrazione in Australia, una linea operativa rigida e spesso criticata, comunque finalizzata ad una gestione oculata degli arrivi, considerato che, come ha affermato l’ambasciatore australiano in Italia, Greg French (nella foto) – di origini abruzzesi – “l’Australia è un Paese che nasce e si sviluppa grazie all’immigrazione e ogni anno accoglie 200mila immigrati, oltre a 18mila rifugiati, e la nostra popolazione, grazie a questo flusso costante ma controllato, cresce dell’1 per cento ogni anno”.
Il “modello australiano”, visto con favore dall’Italia e avversato invece dalla Ue, sembra essere uno strumento efficace nel controllo del fenomeno migratorio.
Proviamo allora a capovolgere la prospettiva e considerare gli italiani come migranti pronti ad espatriare: questo continente oggi rappresenta davvero un’opportunità per costruirsi un futuro? O si tratta solo di illusione e false convinzioni?
A fare un po’ di luce sulla questione è il Rapporto “Italiani, destinazione Australia: sfide e opportunità”. Lo studio, voluto dal Comitato degli Italiani all’estero (Comites) di Victoria e Tasmania, è stato curato dal professor Bruno Mascitelli e dal dottor Riccardo Armillei, della Swinburne University of Technology di Melbourne e illustrato a Roma, alla presenza, tra gli altri, del vice direttore generale presso il ministero degli Esteri e della Cooperazione internazionale, Roberto Martini.
“Il Rapporto è frutto di oltre due anni di indagini e grazie al contributo di tanti esperti è stato possibile offrire una visione d’insieme di un fenomeno che, quale quello della migrazione italiana in Australia, presenta mille sfaccettature” ha affermato il presidente del Comites di Victoria e Tasmania, Francesco Pascalis, auspicando allo stesso tempo una “proficua continuità nelle relazioni tra Italia e Australia, così come lo sono state soprattutto dal dopoguerra in poi, laddove la presenza italiana in questo Paese così lontano dall’Europa è stata un grande esempio di produttiva integrazione sociale ed un grande elemento di sviluppo economico”.
“Working Holiday”, sistema di visti in chiaroscuro
Non v’è dubbio che “la migrazione italiana in Australia sia rimasta troppo a lungo legata a quella degli anni ‘50 e ’60” del secolo passato. In particolare – si legge nel Rapporto – dal 1951 al 1969 arrivarono 300mila italiani, per diventare poi in breve tempo oltre un milione (molti dalle Regioni meridionali, ma tanti anche dal Nord, come Friuli e Veneto). Allora chi migrava nel continente australiano – in gran parte si trattava di uomini – possedeva un basso livello d’istruzione, scarse capacità tecniche e notevoli difficoltà di inserimento nel tessuto sociale.
L’impatto della migrazione italiana in termini numerici nel 1971 equivaleva al 5,14 per cento della popolazione totale australiana.
Da quel momento si registra un calo, fino al 2004, anno in cui viene introdotto l’accordo sul visto WorkingHoliday – che l’Australia firma con l’Italia e con altri 33 Paesi – destinato ai giovani tra i 18 e i 30 anni, per agevolarne viaggio e lavoro.
Ma nonostante una regolare ripresa, ad oggi i numeri dell’emigrazione restano bassi. Limitazioni di età, difficoltà di inclusione sociale e di trasformazione del visto da temporaneo a permanente, inadeguato apporto delle autorità locali nell’accoglienza ai migranti, difficoltà linguistiche, alto costo della vita: l’Australia del Working Holiday resta un Paese complicato.
Anche perché, come denunciato dal Comites di Victoria e Tasmania, “il sistema dei visti in Australia risulta ancora molto confuso e costoso; esistono difficoltà nel riconoscimento delle precedenti qualifiche professionali e dei titoli di studio e si registra un alto numero di casi di sfruttamento degli emigranti ‘temporanei’, soprattutto nei settori alberghiero, commercio e agricoltura”.
“Cervelli” in uscita
“Storie italiane” a lieto fine, comunque, non ne mancano di certo. Voglia di approfondire la conoscenza della lingua inglese, speranza di raggiungere un lavoro di successo, corsa al cambiamento. Le nuove generazioni, diffusamente più istruite, ci provano, “perché l’Italia – dicono – non offre garanzie e opportunità da sfruttare”.
Al riguardo, la recente ricerca per Ecofin, il Consiglio europeo per l’Economia e la Finanza, conferma indirettamente queste dinamiche e presenta un quadro allarmante: l’Italia continua a perdere manodopera altamente qualificata, che va all’estero in cerca di occupazione e in dieci anni sono stati 130mila i lavoratori in uscita. Un’emorragia che occorre fermare al più presto.