Il “caso Russia”, le simpatie italiane e la lezione “inascoltata” di Machiavelli
16 Lug 2019 11:06 - di Carlo Cozzi
Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Il “caso Russia” in versione nostrana, ha meccanicamente subìto, nel dibattito politico subito deflagrato sulla stampa e in tv, la scontata metamorfosi in una materia succulenta di propaganda, ad uso e consumo delle fazioni che si confrontano nel cortile di casa. Un nuova e opportuna occasione per rimpolpare la ormai endemica rissa in atto da una anno fra le due anime del governo. Si è perso così di vista il nodo megapolitico che sta a monte di un episodio certamente inquietante. Fra le polemiche astiose su chi è stato ad invitare il faccendiere con ufficio a via Bellerio alla cena del 4 luglio a Viiia Madama in onore di Vladimir Putin, i’affaire russo si è così avviato sul binario scandalistico dei colpi bassi e dei velenosi spunti propagandistici, tesi ancora una volta a tentare di sottrarre consensi al contraente-nemico del contratto di governo, che oggi viaggia invece sul treno irresistibile di una crescente popolarità. Nelle ridda strumentale di accuse e sospetti, si è disinvoltamente eluso il problema cruciale di indagare sulle radici storico-politiche di un fenomeno che vede oggi non pochi nostri concittadini simpatizzare per la Santa Madre Russia di Putin, così come nel secolo scorso tanti nostri connazionali tifarono per Mosca nella versione sovietica.
A questa grave lacuna di ordine intellettuale si è sforzato oggi di ovviare l’editorialista del Corriere della Sera Angelo Panebianco. Cosa c’è di tanto malato nel nostro sistema – si interroga il colto politologo – da spingere un numero tanto elevato di persone a simpatizzare per la Russia? A concepire cioè un amore sviscerato per un tipo di società, sia quella dell’URSS sia quella odierna .di Putin, così diversa, pur nelle dovute differenze fra quei due sistemi, dal mondo libero e aperto della democrazia rappresentativa in cui noi occidentali siamo abituati a vivere? Per sottolineare la pericolosità di questo “innamoramento” che coinvolge parecchi europei, certamente non nostalgici di Stalin, Panebianco rievoca un incontro che avvenne il 20 agosto del 1968, pochi mesi prima cioè che i cari armati russi intervenissero a soffocare la Primavera di Praga, fra una delegazione di barricadieri tedeschi del Maggio ed un gruppo di studenti praghesi; In quel confronto-scontro, spesso citato dal sociologo francese Raymond Aron, gli studenti cecoslovacchi affermarono il loro desiderio di liberarsi dell’oppressione dell’URSS, del partito comunista e della polizia segreta. Ma vennero derisi ed insultati dai sessantottini tedeschi, che li accusarono di nutrire aspirazioni “piccolo borghesi”, di essere inconsapevoli lacchè dell’imperialismo americano, L’incontro si concluse quando uno studente praghese sbottò: “Deve esserci effettivamente qualcosa di marcio nel vostro sistema socialista se produce imbecilli come voi”.
Nel chiedersi perché e quanto di marcio ci sia nel nostro sistema tanto da favorire e determinare le nuove liasons dangereuses di tanti europei per il “dispotismo asiatico”, sempre lo stesso da Pietro il Grande, a Stalin ed a Puti, Panebianco puntualizza correttamente il ruolo esercitato dall’”antiamericanismo, quale riflesso dell’ostilità assai diffusa nei confronti dell’occidente moderno, su di un tipo di società cioè basata sul’economia di mercato e sulla democrazia rappresentativa.
Ma è proprio in coda al suo editoriale che Panebianco mette a fuoco la sostanza e la rilevanza storica, di natura diremmo quasi geopolitica, che l’episodio porta emblematicamente alla ribalta (al di sopra del fatto di cronaca che i rubli siano o meno arrivati in Italia). L’erede di Pietro il Grande potrà sfruttare al meglio le simpatie di cui gode oggi in Italia. Queste simpatie, afferma lucidamente il politologo “serviranno a lui e ai suoi successori nella gara che dovrà ridefinire , fra le grandi potenze, le aree di influenza nel nostro malandato continente”. Da studioso rigoroso della storia italiana, Panebianco ripropone la tara che avvilisce da sempre la storia del nostro Paese fin dal Rinascimento e, dopo la aggiunta Unità,, fino ai giorni nostri: il vizio inguaribile di affidare a qualcuna delle potenze egemoni della scacchiera mondilale le sorti della Penisola, Sordi alla lezione del Machiavelli che ammoniva i comuni e i principati d’italia che, pur nello splendore di arte, di cutura e potenza economica dagli stessi goduto, mai sarebbero diventati vero Stato se non si fossero affrancati dalla protezione di una potenza straniera e non avessero conquistato unità e indipendenza garantita con proprie armi.