«Una vita per il jazz». E non solo. A Roma targa in memoria di Giampiero Rubei

14 Giu 2019 16:01 - di Gloria Sabatini

Una vita per il jazz. E non solo. Familiari, amici di una vita, musicisti e vertici capitolini si sono ritrovati alla Casa del Jazz per l’inaugurazione di una targa in memoria di Giampiero Rubei, classe 1940, spirito da pioniere e “frenetico” animatore culturale, morto il 2 aprile 1915. 

Rubei, nel jazz l’adrenalina del Novecento

Sognatore di giorno, direbbe Lawrence d’Arabia, occhi aperti e piedi ben piantati a terra, il nome di Giampiero Rubei, impegnato in politica fin da ragazzino, è legato indissolubilmente alla storia del jazz, alla creazione di realtà imprenditoriali e di grandi eventi: l’Alexanderplatz, storico club romano giunto al trentaseiesimo anno di attività, considerato in tutto il mondo il Tempio del Jazz in Italia; il Festival di Villa Celimontana, per vent’anni una “chicca” dell’Estate Romana, la Casa del Jazz, di cui è stato direttore dal 2011 al 2014; Festival di Jazz “esportati” in tutto il mondo, da Tel Aviv a Mosca, da Abu Dhabi a New York, da Londra a Beijing. Militanza a destra e un grande amore per il jazz dove è nascosto  «il messaggio adrenalinico del Novecento», diceva, «ritmo futurista e popolare, note per restare “in piedi tra le rovine”».

Cultura nazionalpopolare contro gli steccati

«Bellissima giornata alla Casa del Jazz. Oggi le istituzioni hanno messo da parte ogni divisione politica e hanno reso omaggio a una figura che, pur avendo una forte identità politico culturale, è stato un riferimento assoluto e trasversale», scrive su Facebook Stefano Tozzi, consigliere di Fratelli d’Italia nel municipio del centro storico della Capitale, autore della mozione che ha avviato il percorso burocratico per il riconoscimento. Una poposta ripresa dal consigliere comunale, Andrea De Priamo, che ha sfidato le perplessità degli uffici di Roma Capitale per una missione quasi impossibile. «Tutto è nato da lì, grazie anche a tutti coloro che lavorando in silenzio hanno consentito di superare ogni ostacolo». Giampiero ne sarebbe contento, lui che è stato una pietra miliare della destra che, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, metteva il naso fuori dai recinti della militanza tradizionale per uscire dal nostalgismo, dalle fogne asfissianti in cui “gli altri” avevano relegato i post-fascisti. Lui tra i promotori del Primo Campo Hobbit, «una festa a lungo attesa». Lui, scanzonato, irriverente, rautiano atipico. Lui molto amico di Gianni Borgna (indimenticato assessore alla Cultura del comune di Roma) perché con i “compagni” ci parlava eccome, per fare rete con gli ambienti più distanti. Un filo rosso che unisce il jazz a Evola, Kerouac e Céline. Oggi con quella targa di marmo la cultura nazionalpopolare, il sentimento delle radici  hanno avuto la meglio sugli steccati ideologici e le tessere di partito. 

La “metapolitica” diventa realtà

Antiretorico, irridente, Giampiero era radicato in una profonda cultura che indirizzava per svecchiare la destra italiana, anchilosata e autoreferendiale. Riviste underground, raduni giovanili, il cenacolo di via degli Scipioni 118, Rubei riuscì, primo fra tutti, a unire la politica come visione comunitaria alla cultura, attraverso un linguaggio nazionalpopolare. I documenti polverosi sulla “metapolitica” diventavano realtà vincendo le difficoltà economiche e la pigrizia dei soloni. Finita la scia di sangue degli anni di piombo, Rubei lancia la sfida, con un po’ di sana incoscienza giovanile. «Sotto casa mia c’era un locale abbandonato e il gestore mi disse “perché non te lo prendi per fare il jazz?». E così è stato. Le persone avevano sete di una dimensione più umana, di una condivisione diversa. C’era il desiderio di ritrovarsi in altri luoghi e la nascita dei club era spontanea», diceva interpretando la voglia di uscire dalle sezioni, contagiare la società e intercettare lo spirito del tempo. Prima dell’Alexanderplatz, Giampiero, testardo e istrionico come era, si era sperimentato affittando a Roma un teatrino in cima a via Cavour dove con qualche amico aveva messo in piedi Il Cenacolo: musica dal vivo, tanti giovani, un angoletto con i poster fuori dal coro di Frazetta, qualche libro e riviste di area. Grazie alla sua passione musicale, una vita per il jazz appunto, e alle sue innegabili doti imprenditoriali, riuscì a coniugare “business” e metapolitica. Un esempio raro, soprattutto a destra. La vittoria tangibile di un’intera generazione che esce dalla retorica della sconfitta e dall’autocompiacimento del “noi, felici pochi”. E oggi tutta la città di Roma, non i “suoi” camerati, gli rende omaggio.

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