Così ci si arrichisce al Csm: stipendi da oltre 240.000 euro. Il governo: via ai tagli

20 Giu 2019 18:55 - di Paolo Lami

Non era solo una questione di potere ma anche di soldi, tanti soldi: sedersi su una morbida poltrona da consigliere del Csm vuol dire mettersi in tasca cifre stratosferiche. E stipendi da oltre 20.000 euro al mese, un vero schiaffo alla miseria e agli italiani costretti a fare i miracoli per arrivare a fine mese.

Il governo giura che ora la pacchia finirà. E annuncia tagli agli stipendi del Csm mettendo un tetto massimo alle prebende che, tuttavia, saranno sempre da favola: non più di 240.000 euro l’anno.
«Entro dicembre – assicura il ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, al termine del vertice a Palazzo Chigi a cui hanno preso parte l’altro vicepremier, Luigi Di Maio e quello della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno – sarà approvata una riforma del processo civile e penale, che ha l’obiettivo di dimezzare i tempi dei processi. Una riforma in cui si dovrà inserire anche il Csm e la meritocrazia che deve avere uno spazio centrale nella carriera e per ambire a ruoli apicali». E, in questo ambito, il governo intende affrontare il nodo economico ponendo un «tetto a 240 mila euro per lo stipendio dei consiglieri. I cittadini non possono avere un’idea di privilegio che non sarebbe giustificato».
Ma è difficile che le toghe si lascino toccare i propri privilegi economici senza fiatare e sollevare un putiferio. Soprattutto perché, a seguire, il governo prevede anche correttivi sui tempi dei processi con «conseguenze disciplinari» per chi non li rispetta.
Insomma si annunciano tempi duri per le toghe dopo la bufera che ha travolto la magistratura.
La foglia di fico dell’indipendenza e dell’autonomia è stata spazzata definitivamente via dal caso Palamara mettendo a nudo un sistema di nomine e imbarazzanti relazioni con la politica sulla cui esistenza nessuno aveva dubbi.

E proprio nella corrente che sembrava essersi avvantaggiata dalla vicenda Palamara, Area Democratica, il gruppo sindacale di sinistra della magistratura, si apre una pesante crepa.

Dino Petralia, procuratore generale di Reggio Calabria, il 17 giugno ha revocato la domanda per procuratore di Torino inviando una lettera riservata al suo collega di corrente al Csm, il presidente della Quinta commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, Mario Suriano, togato di Area come lui.

Petralia, che è citato nei conciliabili intercettati, parla, come afferma Il Fatto Quotidiano, di «amarezza», di «perdita di entusiasmo» raccontando di aver chiesto, in occasione un convegno di Area a Bari, ai togati al Csm della sua corrente come mai la nomina a Torino fosse ferma e le sue quotazioni al ribasso.

«Mi dissero – rivela Petralia a Il Fatto Quotidiano – che erano subentrate forti difficoltà perché c’era un isolamento di Area per il suo arroccamento su un candidato diverso a Roma. Sono stato sul punto di ritirarmi, ma dopo quello che è emerso sono sdegnato, non voglio più andare a Torino. Questa scelta mi è costata, da vittima, però, non voglio passare per altro».

Nella lettera che ha inviato al Csm si capisce che Petralia vuole allontanare da sé sospetti e combutte: «L’acquisita consapevolezza di una tale esclusione dal posto di Torino – scrive Petralia nella lettera al suo capocorrente di Area al Csm – mi ha provocato una profonda amarezza manifestata peraltro anche in espliciti e sdegnati sfoghi avuti con colleghi vari e di tutti i gruppi e che tale sentimento di recente si è ulteriormente amplificato fino a raggiungere una condizione di sconfortante sfiducia, alimentata anche da alcune recentissime notizie di stampa in cui nella scelta del nuovo procuratore di Torino si dovrebbe privilegiare l’etica piuttosto che i titoli, con riferimento a chi nei dialoghi intercettati non fosse mai stato citato».

Commenti

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  • Giuseppe Malaisi 21 Giugno 2019

    Come non più di 240.000,00 l’anno ? Ma per fare cosa ?
    Dopo ci si stupisce se uno evade il fisco ?