“Operazione Nibelunghi”: così Cosa Nostra intascava i soldi dei contributi agricoli comunitari
Un “sistema illecito” di gestione di terreni e contributi agricoli da parte di Cosa Nostra nella zona delle Madonie e dei Nebrodi. E’ quanto hanno scoperto i finanzieri del Gico del nucleo di Polizia economico-finanziaria di Caltanissetta, in collaborazione con lo Scico (Servizio centrale investigazioni sulla criminalità organizzata) di Roma, coordinati dalla Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta. Dodici complessivamente le misure cautelari emesse dal gip ed eseguite dai finanzieri: 6 ordinanze di custodia cautelare in carcere, 5 arresti domiciliari e una misura di interdizione dall’esercizio dell’attività professionale nei confronti di un notaio. L’operazione, denominata “Terre emerse” e che vede coinvolti allo stato attuale 23 indagati, trae origine dal blitz “Nibelunghi”, condotto sempre dai finanzieri del Gico di Caltanissetta tra il maggio 2017 e il gennaio 2018. Al centro del sistema scoperto dalle Fiamme gialle la famiglia Di Dio, originaria di Capizzi, nel Messinese, ma stabilitasi nella provincia di Enna. Nei loro confronti (tutti destinatari di ordinanza applicativa della custodia cautelare in carcere) è stato contestato il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa con riferimento ai “rapporti con numerosi esponenti di famiglie mafiose, tra cui quella dei fratelli Virga, inserita nel mandamento di San Mauro Castelverde”.
Secondo gli investigatori proprio i Di Dio “si sono dimostrati particolarmente attivi nel settore delle agromafie”. Avrebbero agevolato Cosa nostra, determinando “un significativo incremento del potere di infiltrazione in attività economiche collegate allo sfruttamento di vaste aree agricole nel Parco delle Madonie, a Capizzi e nella provincia di Enna”. I contributi comunitari ottenuti venivano in parte versati , per l’ottenimento di contributi comunitari sarebbero poi in parte stati versati proprio a elementi di vertice del gruppo mafioso, fornendo, sottolineano gli inquirenti, “un indispensabile apporto, anche economico, al mantenimento e al rafforzamento di Cosa nostra”. Gli indagati utilizzavano aziende agricole intestate a loro o a loro stretti congiunti per concludere contratti fittizi di compravendita o di locazione di terreni, in realtà, direttamente riconducibili a soggetti mafiosi, consentendo “mediante questo meccanismo di interposizione fittizia, di dissimulare l’effettiva disponibilità dei cespiti in capo ai coindagati al fine di sottrarli alla possibile emissione di provvedimenti di sequestro o a misure di prevenzione patrimoniali”. I terreni e le aziende sarebbero stati così utilizzati per presentare domande per i contributi comunitari, usando anche aree di proprietà demaniale.
In alcuni casi i terreni demaniali venivano sfruttati dagli indagati e rivenduti, pur senza alcun titolo (trattandosi di beni di proprietà dello Stato), all’Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) attraverso l’utilizzo di atti falsi che hanno consentito di incamerare ingenti somme di denaro. Una parte di tali beni, sottratti allo Stato, sono poi stati ricomprati da altri membri della famiglia Di Dio che hanno continuato a sfruttarli fino a oggi risultando, agli atti di registro, quali proprietari di beni che, in realtà, rientrano nel patrimonio dello Stato. Tra gli indagati particolarmente significativo, spiegano gli investigatori, è il ruolo dei fratelli Rodolfo e Domenico Virga di Gangi, legati da vincoli di parentela ad altre storiche famiglie palermitane. Grazie alla loro appartenenza alla mafia e al loro ruolo di spicco nel mandamento di San Mauro Castelverde, “riuscivano a mantenere la gestione di terreni e imprese agricole con fittizie locazioni, in capo sia ai Di Dio sia a prestanome”, spiegano dalla Guardia di finanza.