Attenti all’export: il “made in Italy” è una delicata combinazione di qualità e prezzo

13 Mag 2019 17:42 - di Enea Franza

Non sono pochi gli esportatori che ritengono di fronteggiare il rischio di cambio facendosi pagare in euro, anziché, come di norma, nella valuta del Paese verso cui si esporta. Cosi essi ritengono di poter immunizzarsi dalle perdite derivanti dalle oscillazioni delle valute che chi lavora con l’estero è costretto, sempre più spesso,  a imputare a bilancio. Ad esempio, la valuta cinese nel corso degli ultimi due anni si è apprezzata fino a toccare  quota 1 euro per 1.096 Cny nel novembre 2018 per tornare, in questi giorni, pressoché ai livelli dello scorso maggio 2018 a circa 1 euro per 7.630 Cny. Più subdolo il dollaro, per il quale gli analisti, sulla base dell’affievolirsi degli effetti che nel corso del 2018 hanno permesso al biglietto verde di apprezzarsi, ne prevedono la caduta; in effetti, mentre le conseguenze della riforma fiscale stanno oggi dissipandosi,  gli Usa hanno iniziato a rallentare e la Fed ha invertito la rotta, mentre i timori di protezionismo si sono affievoliti con l’avvicinamenti di Pechino e Washington.

Tornando ai nostri esportatori mi permetto, con un esempio, di dimostrare il forte impatto che, anche una piccola rivalutazione del cambio euro/dollaro (il discorso, naturalmente, vale anche per ogni altra moneta) ha sul conto economico dell’impresa e, in secondo luogo, come sia del tutto inutile, in presenza di una domanda del bene esportato elastica, pensare di anestetizzare gli effetti della svalutazione facendosi pagare in moneta interna (euro). Purtroppo ci serviranno un po’ di numeri, ma sono certo che, superato l’impatto inziale chi avrà la pazienza di seguirmi sarà finalmente conscio di come affrontare il rischio valuta. Ipotizziamo un’impresa produttrice di vino che esporti in Usa. Supponiamo che il costo industriale per la produzione di qualche bottiglia di ottimo prosecco (diciamo 10) sia 72 euro, con un margine complessivo di 5 euro e, quindi con un prezzo di listino delle 10 bottiglie di 77 euro. Facciamo conto di avere un listino in dollari che viene fissato ad un cambio euro/dollaro pari a 1,30 e supponiamo che le bottiglie vengano vendute a 100 dollari. Adesso immaginiamo che al momento della vendita il cambio sia 1,40, ovvero, con un apprezzamento dell’euro sul dollaro di circa il  7,7% (o meglio 0,769%). Ne segue che, con il nuovo cambio alla vendita, l’incasso in euro sarebbe pari a 71,5 euro. Ne segue che, dunque, il margine da 5 euro  diventa addirittura negativo e, cioè, pari a -0,5 euro.

Adesso vediamo cosa succede a farsi pagare in euro invece che accettare di vendere in dollari. A questo punto il costo del cambio sarà scaricato dall’importatore. Ma, va osservato, che questo se vorrà mantenere invariata la sua provvigione non potrà fare altro che scaricare il maggior costo del bene importato sul prezzo del bene venduto. Se la domanda del bene è inelastica rispetto al prezzo, come è lecito attendersi però per i beni assolutamente essenziali e insostituibili (come quelli connessi ai servizi medici), l’aumento del prezzo del bene non avrà effetto sulla domanda e, quindi sulle vendite del bene, viceversa, l’effetto cambio si farà sentire come effetto sulle vendite. Cioè in altre parole diminuirà la quota di mercato del buon vino italiano a scapito di altri concorrenti, magari di vino locale. In buona sostanza non è vero, come purtroppo molto si sente dire nelle varie fiere nostrane di nostri esportatori tanto intraprendenti quanto sprovveduti, che le produzioni di qualità sono immuni dalle politiche di cambio; purtroppo, il Made in Italy  è una combinazione di prezzo/qualità e l’uno (il prezzo) può essere solo marginalmente superiore a quelli dei concorrenti ma (e solo) se corroborato dal vantaggio di una altissima qualità, che probabilmente non manca in molti prodotti nostrani, ma che proprio per l’alto margine attiva processi emulativi locali e li rende oltremodo competitivi. Pensare di poter vendere beni di qualità ad oltre il 10% del prezzo ordinario dei concorrenti, vuol dire a nostro modo di vedere, aprire anche la strada a vendite di prodotti locali e favorire l’imitazione di quelli nostrani.  I tanti finti “parmigiano reggiano”, presenti sugli scaffali di supermercati d’oltre oceano, dovrebbero insegnare (ma purtroppo pare non consiglino) qualche ad essere più prudenti a chi lavora nell’export.

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