Altaforte, dai tagliatori di teste del Borneo a quelli nostrani, quant’è breve il passo degli antifascisti
Un paio di sere fa, sul treno diretto a Pietra Ligure, fra una chiacchiera e l’altra con gli occasionali compagni di viaggio, spunta un ricercatore, Luca, un ragazzo pacato e dal viso pulito che racconta, con grande trascinante passione ma anche con umiltà e ritrosia – solo perché sollecitato dalle insistenti domande – il suo straordinario e oscuro lavoro.
Lo ascoltiamo con interesse e curiosità mentre si addentra in termini complessi conducendoci per mano in un mondo affascinante. Si occupa di ricerche sul cervello. Vive e lavora a Firenze. E, ogni tanto, prende il treno per tornare a trovare i genitori – papà ferroviere, mamma casalinga – un paio di volte al mese, in Liguria.
Gli domandiamo perché non si trasferisce all’estero dove i ricercatori italiani sono così apprezzati e, anche, ben più pagati e valorizzati che in Italia.
Risponde con candore lasciandoci di stucco: “Amo questo Paese, amo l’Italia. Voglio restare qua”.
Poteva risponderci in mille modi. Anche dirci che qui si trova comodo. No, ci ha risposto proprio così, in maniera commovente: “Amo questo Paese, amo l’Italia”.
Anche la bigliettaia, giunta nel frattempo, in questo scompartimento mezzo vuoto del regionale Genova–Pietra Ligure che affetta la notte e la pioggia sferragliando fra il mare e la montagna, si ferma estasiata e sorridente di fronte a questa ingenua e spontanea dichiarazione d’amore che ha sorpreso tutti.
Ma è la sera delle sorprese, per fortuna. Da un posto alla fine della carrozza si alza una ragazza piccolina, che non avevamo visto. Dice, mentre si appresta a scendere alla prossima fermata: “Voglio dire una cosa. Ho ascoltato tutto. Anch’io sono una ricercatrice, ho lavorato per due anni in Olanda. Ho deciso di tornare in Italia definitivamente. Come si vive qui non si vive da nessun altra parte”.
Ripenso a tutta questa scena surreale e in qualche maniera dolcemente struggente mentre leggo, sul Fatto Quotidiano, l’articolessa di un’antropologa, anch’essa ricercatrice – di cui non facciamo il nome perché non merita alcuna pubblicità – che, arrampicandosi sugli specchi scivolosi dell’antifascismo, spiega perché è giusto che dal Salone del Libro di Torino siano stati cacciati con sdegno l’editore Altaforte, i suoi scrittori e, in particolare, la giornalista e scrittrice Chiara Giannini, autrice del libro-intervista a Matteo Salvini.
L’antropologa antifascista, racconta di aver viaggiato in mezzo mondo – Iran, Cina, Borneo, etc. etc. – e cita la sua esperienza fra i “regimi” più oscurantisti agitandola sotto il naso dei lettori come fosse una patente che le dà diritto di pontificare e dividere, ad accettate, i buoni dai cattivi, i sinceri democratici, degni di sfilare con la loro inutile paccottiglia antifascista al Salone del Libro, dai paria che non hanno alcun diritto, tantomeno quello di parlare e perfino di pensare, tantomeno ad alta voce.
Invece di fare l’antropologa, si improvvisa prima costituzionalista – in Italia ci sono 60 milioni di tecnici di calcio, nessuno si stupirà, avrà forse pensato, se un’antropologa si veste un attimino da costituzionalista per giustificare una odiosa e vergognosa censura – e, poi, fine penalista per dare supporto “legale” all’azione censoria contro Altaforte in nome della legge Scelba.
E si spinge a sostenere che sì, insomma, è giusto così, è giusto togliere la parola e mettere all’indice le idee e il diritto alla parola degli altri non graditi come l’editore Altaforte perché “la libertà d’espressione finisce quando attacca i principi della Costituzione” e perché se è vero che “i nostri padri Costituenti hanno voluto garantire la libertà di espressione, difendendola quale fondamento della democrazia, anche a costo del pericolo di diffamazione o di espressione di pensieri estremi…altresì ci stiamo rendendo conto che questa “estrema libertà” potrebbe portare a estremismi pericolosi e preoccupanti, soprattutto qualora non vengano controllati”.
Ovviamente il controllo, per questa gente, non lo svolge la magistratura o le forze di polizia, come funziona, normalmente, in uno Stato democratico, ma questi nostrani severi e accigliati “Guardiani della Religione Antifascista”, questi intellettuali–pāsdārān in servizio permanente effettivo pronti a insorgere, a sdegnarsi, a cacciare i diversi, a tappare la bocca a chi non la pensa come loro. In nome della democrazia, naturalmente.
Uno spericolato esercizio secondo il quale scrivere, pubblicare, come fa Altaforte, o promuovere un libro–intervista su Matteo Salvini – ministro della Repubblica italiana eletto in Parlamento attraverso una libera e democratica elezione – rappresenta un attacco alla Costituzione.
Sul suo profilo l’antropologa–costituzionalista spiega di aver svolto (in qualità di antropologa e non di costituzionalista, stavolta) “una ricerca inedita presso i tagliatori di teste del Borneo”. Forse è lì che ha imparato a tagliare teste. E, con le teste, anche le idee e i cervelli che le contengono.
Fra tanti ricercatori, i cosiddetti “cervelli in fuga”, c’è chi resta qui, come Luca, perché ama questo Paese. E chi ritorna e, forse, era meglio che restava all’estero. Magari proprio in mezzo ai tagliatori di teste del Borneo.