Alitalia, la retromarcia di Toninelli e Di Maio sui «prenditori» Benetton

4 Mag 2019 18:59 - di Redazione
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Prima attaccavano i Benetton con insulti e dichiarazioni roboanti minacciando di togliergli dalle mani le concessioni autostradali, ora li corteggiano sperando che si prendano sulle spalle il pesante fardello Alitalia.
E’ lo strano comportamento a corrente alternata dei grillini nei confronti degli imprenditori veneti dei maglioni e delle autostrade soprannominati, neanche troppo tempo fa, dal duo M5S, Di Maio-Toninelli, “prenditori”.

E’ lunga e articolata la sequela di attacchi sferrata, subito dopo il crollo del Ponte Morandi a Genova, dal Movimento 5 Stelle ad Atlantia, oggi considerata la possibile partner “mancante” della cordata che potrebbe salvare Alitalia.

Un fiume in piena, un crescendo di accuse e polemiche quelle indirizzate dal vicepremier, Luigi Di Maio e dal ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli contro “i padroni del casello”e “la malapolitica dei vecchi partiti” che ha chiamato alla corresponsabilità anche i maggiori giornali italiani rei di aver coperto, insieme, le operazioni di Atlantia su strade e autostrade.

«Il crollo si poteva evitare. E’ figlio di tutti i trattamenti privilegiati e delle marchette fatte ad Autostrade per l’Italia che incassa i pedaggi più alti d’Europa e paga tasse basse in Lussemburgo», accusò, a caldo il 15 agosto a 24 ore dal disastro di Genova, il ministro e vicepremier grillino, Di Maio annunciando la revoca della concessione autostradale e multe per 150 milioni di euro, e sferrando al tempo stesso un attacco micidiale alla vecchia politica e ai Benetton.

«Nello Sblocca Italia nel 2015 fu inserita di notte una leggina che prolungava la concessione a Autostrade in barba a qualsiasi forma di concorrenza. Si è fatta per finanziare le campagne elettorali. A me la campagna non l’ha pagata Benetton e sono libero di rescindere questi contratti», proseguiva Di Maio tirando bordate contro gli imprenditori di Ponzano Veneto a cui vorrebbe ora rifilare il pacco Alitalia.

Luigi Di Maio si dichiarava, a ridosso di quel terribile agosto, orgoglioso di «un governo che non ha preso soldi da Benetton».
Chi non vuole revocare la concessione ad Autostrade per l’Italia, rincarava la dose nell’immediatezza della tragedia, «dovrà passare sul mio cadavere».
E in alcune interviste ribadiva il concetto accusando i governi che lo avevano precedutodi aver «coperto politicamente Autostrade per l’Italia».
«Ci vuole tanto tempo per invertire la rotta e togliere la mangiatoia pubblica a questi prenditori, ma siamo stati votati proprio per questo», aveva sostenuto Di Maio.

Un concetto quello dei “prenditori” che ribadirà meglio più tardi quando scriverà sul Blog dei 5 Stelle: «fuori i prenditori di soldi dallo Stato» annunciando la denuncia alla Corte dei Conti per danno erariale di chi aveva permesso «la concessione regalo» ad Autostrade.
Quei «prenditori – aveva scritto Di Maio – che hanno preso possesso delle infrastrutture italiane, pagate dai nostri nonni e dai nostri padri, e grazie a politici compiacenti le hanno trasformate in macchinette mangia soldi dei cittadini».

Il vicepremier Cinquestelle aveva parlato di «rendita garantita del 7 per cento» che consegna al Paese la figura «dell’imprenditore a rischio zero che è un’invenzione tutta italiana».

A Di Maio aveva fatto eco il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli lanciando siluri sulla holding che controlla Autostrade: «chi si è enormemente arricchito non può continuare a gestire quel bene pubblico», diceva nel dicembre scorso rilanciando, in alcune interviste ai quotidiani, le accuse sul «vergognoso scambio di favori tra vecchia politica e grandi potentati economici, a danno dello Stato e dei cittadini».

Nel mirino di Toninelli sopratutto la «rendita» che Autostrade si sarebbe garantita. «Altro che giusta remunerazione del capitale investito. Qui parliamo di colossi che hanno margini operativi giganteschi rispetto ai fatturati. Roba che possono sognarsi persino le grandi dotcom della Silicon Valley. Roba che Apple o Google si sognano», diceva il titolare dei Trasporti puntando il dito contro la politica «che ha svenduto l’interesse pubblico sull’altare di un capitalismo di relazione che ha alimentato i fatturati dei privati e, dall’altra parte, le casse dei partiti».

D’altra parte anche per Toninelli erano «decenni che i giornali reggono il gioco a certi poteri forti, mentre i partiti ottenevano fondi da quegli stessi potentati, consentendo loro in cambio di arricchirsi enormemente a scapito dello Stato e degli italiani», scriveva su Facebook il ministro.
Dopo la bufera, si tratta di vedere se ora è tempo di disgelo o di tregua armata vista la situazione di Alitalia che si sta consumando come una candela: di proroga in proroga si va verso il 15 giugno e i 900 milioni di euro degli italiani prestati dal governo di centrosinistra alla compagnia aerea faticano a rientrare. Molti pretendenti sono fuggiti e nessuno sembra realmente disposto a fare un matrimonio d’interesse con il vettore italiano.
«L’atteggiamento del governo non è cambiato», giura Toninelli sostenendo che Alitalia e Ponte Morandi sono due dossier diversi. E che non vanno mischiate le carte. Certo che così è parecchio difficile convincere la riluttante Atlantia – soprattutto dopo il no, grazie dell’Ad, Castellucci – a caricarsi sulle spalle Alitalia.

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