Ad Ascoli Piceno una piazza per Ramelli. Il sindaco: «Coltiviamo la libertà, Sergio ne è simbolo»

24 Mag 2019 16:58 - di Annamaria Gravino

È un atto fortemente simbolico quello con cui Guido Castelli, sindaco uscente di Ascoli Piceno, lascia la guida della città dopo dieci anni. L’ultimo provvedimento di questo primo cittadino, che a differenza di molti suoi colleghi è uscito fortificato dalla crisi economica che ha funestato il consenso dei sindaci (la prima volta vinse al ballottaggio per 200 voti, la seconda al primo turno col 60%), è stato l’intitolazione di un piazzale a Sergio Ramelli, perché, spiega citando l’Eneide, «sunt lacrimae rerum». «Nelle cose ci sono gli affetti e, dopo 10 anni – sottolinea – ho sentito il dovere di offrire un tributo alla memoria di una figura che mi ha aiutato a crescere e a capire quanto la tolleranza e la libertà siano cifre fondamentali del vivere comune».

Eppure, sindaco, anche quest’anno il ricordo di Sergio Ramelli è stato oggetto di polemiche feroci. Non teme che questa decisione possa essere divisiva per la sua città?

Ascoli è medaglia d’oro per la guerra di Liberazione e io ho sempre praticato l’idea della pacificazione. Per me questo è un tributo alla mia storia (Castelli viene dalla militanza nel FdG, ndr), ma anche alla storia di un ragazzo di cui dovrebbe essere insegnata la vicenda proprio per ammonire le giovani generazioni sulla necessità di tenere lontana dalle piazze la violenza, l’insulto, l’oltraggio a chi non la pensa come te e alle forze dell’ordine. E mi sembra un tema non inattuale.

Ascoli che piazza è?

Noi abbiamo avuto Salvini e Meloni. Contro Salvini c’è stato un gruppetto di sciocchi, ma poca roba. In questi 10 anni non abbiamo avuto rigurgiti di guerra civile. E non nell’indifferenza delle istituzioni, ma trasmettendo valori in maniera trasparente e approfondita. Non servono sindaci apolidi, ma sindaci che propongano contenuti, facendo in modo che le città siano luoghi veramente di tutti.

Lei è stato promotore di un Festival culturale fuori dagli schemi del mainstream, “L’altra Italia”, in cui senza alcun imbarazzo venivano invitati ospiti sgraditi a certi maître à penser: Veneziani, Morganti, Buttafuoco, Giubilei, alcuni dei quali di recente finiti nelle “liste di proscrizione” fioccate in occasione del Salone del libro.

Sì, dal 2010 al 2018 abbiamo fatto delle piazze di Ascoli luoghi dove il pensiero non conformista poteva liberamente dispiegarsi. Ho provato a fare della mia città un luogo di elaborazione e confronto, con un lavoro aperto. Abbiamo messo insieme anche Giordano Bruno Guerri e Marco Rizzo, quanto di più lontano l’uno dall’altro si possa immaginare.

E “Ascoli città medaglia d’oro della resistenza” non si è ribellata a una scelta così poco omologata?

No, la risposta dei cittadini è stata ottima. Non abbiamo mai avuto una volontà di indottrinamento, ma quella di proporre un confronto piacevole e approfondito. Le persone ne hanno voglia e i Municipi, i rapporti di prossimità sono i luoghi che tendono a dare verità anche alle proposte culturali. Le città sono il luogo ideale in cui le torsioni del mainstream possono essere governate, purché le piazze siano aperte al dialogo di tutti e nessuno pensi di poter mettere il bavaglio a nessuno. Io ho cercato, anche grazie alla mia esperienza nella destra, di dare vita a un luogo dove la libertà di pensiero fosse praticata.

Lei rivendica con grande insistenza il fatto di essere un uomo di destra nelle istituzioni…

Io devo molto della qualità percepita della mia pubblica amministrazione alla militanza a destra. Nel Fdg ho imparato il rigore e il senso solido delle istituzioni. Devo molto alla palestra della militanza giovanile. Oggi, per ragioni storiche, le classi dirigenti non si formano più iniziando dal volantino davanti scuola, come ho fatto io. Oggi l’avviamento alla politica inizia candidandosi come consigliere comunale nel proprio Comune. Per questo credo molto nell’importanza delle autonomie locali, dei Comuni anche per garantire la crescita di una classe dirigente nazionale. La destra storicamente non ha una grande tradizione legata alle autonomie, nasce centralista. Ma oggi nei Municipi, nei Comuni si scopre il patriottismo istituzionale che può essere utile alla più grande questione del patriottismo nazionale, che non è contrapposto, ma rafforzato dalla spinta delle periferie.

Pensa di aver fatto di Ascoli un modello?

Io penso che Ascoli sia certamente un laboratorio, culturale e politico. Abbiamo avuto Giorgia Meloni in città, lei stessa ne ha parlato in questi termini.

Eppure in città il centrodestra arriva alle amministrative di domenica spaccato, con Forza Italia che non ha presentato la lista e sostiene un altro candidato.

Questo è stato veramente un esempio di tafazismo politico. Forza Italia prima ha presentato con noi il candidato del centrodestra e poi si è sfilata. Attenzione, però, questa non è la conseguenza di un centrodestra che non tiene, ma della debolezza strutturale dell’organizzazione di Forza Italia. Qui, come in molte parti del Paese, manca di un’organizzazione, di una razionalità nella gestione delle attività. Il centrodestra unito ha vinto ovunque e abbiamo chi si prende la responsabilità di romperlo in una città storicamente di destra. È una grave irresponsabilità, che speriamo di poter rintuzzare con il candidato del centrodestra, Marco Fioravanti, che io sostengo convintamente. E però dobbiamo anche rilevare che proprio questa spaccatura rappresenta un banco di prova, un laboratorio, come ha detto Meloni. Da una parte ci sono Meloni e Salvini e dall’altra Tajani. In questo senso Ascoli è un caso e un banco di prova anche per le Regionali del prossimo anno.

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