Musumeci a Salvini: «Cambiare la legge sui Comuni sciolti per mafia»

10 Apr 2019 13:44 - di Nello Musumeci*
La notizia è di questi giorni: con Mistretta e San Cataldo salgono ormai a dieci i Comuni “sciolti” per mafia in Sicilia. Un dato che suscita seria preoccupazione e che rischia di rendere più profondo il divario tra la piazza e il Palazzo, tra la gente e la politica. L’idea che le classi dirigenti locali elette dal popolo possano subire, direttamente o indirettamente, condizionamenti dalle organizzazioni criminali o che i mafiosi possano infiltrarsi nei Comuni per i loro loschi interessi, crea tra i cittadini disorientamento, disaffezione, rassegnazione ma anche rabbia. E, come sempre, ci si divide tra chi si sente offeso da un provvedimento così drastico che induce a facili generalizzazioni (“in questo paese siamo onesti e non mafiosi!”) e chi saluta con soddisfazione il pesante intervento dello Stato (“hanno fatto bene a mandarli tutti a casa!”).
Al di là delle contrastanti reazioni emotive o strumentali della gente, il crescente fenomeno dei Comuni sciolti per mafia invita ad alcune serene riflessioni. La prima cosa su cui riflettere è che in questo momento 167mila siciliani non sono amministrati da organi elettivi: in dieci Comuni dell’Isola la democrazia, in un certo senso, rimane sospesa per almeno diciotto mesi, ma anche fino a due anni. Appare chiaro, insomma, come il decreto di scioglimento si riveli fortemente invasivo nella vita civile di una comunità, specie se piccola. Ma è altrettanto chiaro che siamo di fronte ad una misura dello Stato straordinaria, di natura preventiva e caratterizzata da un’ampia discrezionalità dell’autorità proponente (la Prefettura). Come è noto, infatti, per sciogliere un Comune non è necessario l’accertamento di reati penali, ma è sufficiente che emerga una possibile soggezione degli amministratori locali alla criminalità organizzata, anche a prescindere dal fatto che i politici abbiano voluto assecondare le richieste mafiose. Va da sé che qualsiasi misura di contrasto alla criminalità dovrebbe essere accolta con soddisfazione da chiunque creda nella legalità. Ma se l’applicazione di una norma non sempre porta ai risultati sperati, lo Stato rischia di non essere più in sintonia col comune sentire dei cittadini. Un esempio? Guardiamo la statistica: decine di Comuni, dopo essere stati sciolti per mafia una prima volta, tornano ad esserlo per la seconda e, in alcuni casi, anche per la terza volta. È capitato anche in Sicilia. È un risultato sconfortante, una realtà triste che rischia di alimentare perplessità tra la gente e sfiducia nelle Istituzioni. Del resto, non è un caso che la normativa sullo scioglimento dei Comuni abbia alimentato nel tempo perplessità, reazioni, critiche e contenziosi, anche con frequenti ricorsi alla magistratura amministrativa da parte di politici colpiti dal provvedimento.
Per cinque anni, da presidente della Commissione parlamentare Antimafia all’Ars, mi sono battuto per chiedere al governo nazionale di rivedere la materia che ormai, dopo quasi un trentennio, mostra evidenti limiti. Analoghe richieste sono state avanzate dall’Antimafia nazionale, dall’Anci e persino da magistrati impegnati in prima linea contro la criminalità organizzata. Ma senza risultato.
Quello che si contesta delle norme sullo scioglimento non è solo l’incerto livello di garanzia, ma anche alcune incongruenze che rendono il provvedimento spesso inutile se non dannoso.
Prima incongruenza: perché in un Comune sciolto per mafia, lo Stato allontana solo il ceto politico e lascia al proprio posto i dirigenti della burocrazia comunale? Eppure è risaputo che in uffici a “rischio” come quelli preposti ad appalti e lavori pubblici, commercio e licenze, cave e attività estrattive, occupazioni abusive, rifiuti e servizi cimiteriali, il dirigente -volente o nolente- si trova spesso a fungere da “cerniera” tra il consenso del politico e la pressione del mafioso. Né va dimenticato che mentre gli amministratori non hanno certezza di durata in carica, la burocrazia appare l’unica struttura stabile, dotata di competenza e di poteri decisionali.
Cosa fare, dunque? Estendere gli effetti del provvedimento di scioglimento anche ai vertici burocratici. Il segretario comunale, i dirigenti alla guida di uffici strategici e con un’ampia sfera di autonomia decisionale non dovrebbero rimanere al loro posto. Anche in assenza di indizi, andrebbero destinati ad altro ente (senza dover subire alcun danno economico) per tutta la durata del commissariamento ed essere sostituiti da dirigenti esterni assolutamente estranei all’ambiente sociale e professionale del Comune sciolto.
Seconda incongruenza: perché in un Comune sciolto per mafia, lo Stato provvede alla nomina di commissari straordinari già oberati da altri gravosi impegni d’ufficio e senza neppure verificarne la idoneità e l’attitudine al governo di un Ente? Ho conosciuto in questi anni commissari assai competenti ma presenti al Comune solo per uno-due giorni la settimana, perché già assorbiti in Prefettura come capo Gabinetto o viceprefetto o in altro delicato incarico. Questo è un grosso errore! Un Comune commissariato non è un “Dopolavoro” da frequentare nel tempo libero: bisogna starci sette giorni su sette. E quanti abbiamo esperienza di governo locale lo sappiamo bene. Né basta che i commissari siano preparati e assiduamente presenti se poi si “chiudono” nei loro uffici perché non hanno propensione al dialogo e al confronto con le organizzazioni del lavoro e sociali, con l’associazionismo, con i comitati, con i cittadini che chiedono di essere ricevuti ed ascoltati. Guai se la gente dovesse dire: “Si stava meglio quando si stava peggio. Almeno il sindaco teneva sempre la porta aperta!” Per questa ragione sarebbe necessario istituire presso il ministero dell’Interno un apposito Albo di dirigenti pubblici che abbiano tutti i requisiti per essere destinati ad amministrare Comuni sciolti.
Rimane il tema dei “poteri” in deroga da affidare alla gestione commissariale, anche in materia finanziaria, di personale, di lavori pubblici: la “bonifica” di un contesto sociale inquinato dalla presenza mafiosa, il suo risanamento-rinnovamento non si ottengono con la sola buona volontà dei tre commissari, né basta prorogarne la gestione da 18 a 24 mesi. In una condizione straordinaria servono misure straordinarie, azioni propulsive e di crescita, se si vuole restituire alla comunità un Ente libero da ogni opacità, non più vulnerabile e, al tempo stesso, creare diffuso consenso tra la gente, che vuole avvertire il cambiamento tra il “prima” e il “dopo”.
Queste riflessioni ho voluto rassegnare nei giorni scorsi in una nota al Ministro dell’Interno, ribadendo la urgente esigenza di una revisione normativa della complessa materia. Ho ritenuto di proporre anche la previsione di una sorta di “diffida” ai Comuni appena afflitti da patologie legate a possibili condizionamenti o infiltrazioni. Una forma, cioè, di tutoraggio dello Stato, affidato alla Prefettura, prima di arrivare alla ineluttabilità dello scioglimento. Che è e resta un evento traumatico ma necessario, quando non è usato come strumento di lotta politica tra opposti schieramenti.
Tutto il resto rimane affidato alla etica della responsabilità della politica, quella dei partiti, dei movimenti locali, delle associazioni civiche. Nulla può prescindere dalla rigorosa selezione del personale militante, dei candidati alle elezioni, delle loro scomode parentele e frequentazioni, della insidiosa e sempre più diffusa “zona grigia”.
Una politica che sappia fare scelte coraggiose ed anche impopolari, che non deleghi sbrigativamente la magistratura ma sappia fare pulizia al proprio interno, prima che arrivi la Procura. È troppo sperarlo?
*presidente della Regione Sicilia

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