Il fratello dell’agente Campagna ucciso da Battisti: mai perdono a quell’assassino

19 Apr 2019 19:17 - di Paolo Lami
L'omicidio dell'agente di polizia Andrea Campagna, ammazzato da Cesare Battisti con 5 colpi alle spalle il 19 aprile 1979

«Cesare Battisti? Per me resta un terrorista, non un ex, fino a quando non ci sarà una ex-vittima». E’ tranchant Maurizio Campagna, fratello di Andrea Campagna, l’agente della Digos di Milano freddato dall’ex-terrorista dei Pac, i Proletari armati per il comunismo, insieme al complice Giuseppe Memeo, con cinque colpi di pistola il 19 aprile 1979.

Sono passati quaranta anni da quell’omicidio portato a termine da BattistiMemeo con gelida determinazione. Andrea Campagna si sarebbe dovuto sposare di lì a pochi mesi con la sua fidanzata Cecilia. Aveva 25 anni e una vita davanti. Battisti e il suo complice lo attesero sotto casa di quella ragazza. E lo ammazzarono, sparandogli vigliaccamente alle spalle, in via Modica, al termine del suo turno di servizio. In pieno giorno. Con l’arroganza di chi si sente intoccabile. Scaricarono i colpi di 357 Magnum sul corpo di quel ragazzo che faceva l’autista alla Digos. E che i Pac, rivendicando l’omicidio compiuto da Cesare Battisti, definirono «torturatore di proletari».
Il padre della fidanzata Cecilia, che era accanto ad Andrea Campagna, a circa un metro e mezzo di distanza, quando Battisti gli spara alle spalle vede bene in faccia l’assassino. Gli corre dietro mentre Battisti cerca di raggiungere la macchina guidata da Memeo per fuggire. Sono attimi terribili. Pochi secondi in cui Battisti punta la pistola in faccia all’uomo per fermarlo. Ma il caricatore è, oramai, completamente scarico, svuotato con rabbia sul povero agente che sta agonizzando. E il padre della fidanzata di Andrea Campagna si salva così.

«Io non perdono l’assassino di mio fratello, io non perdonerò mai Cesare Battisti – assicura Maurizio Campagna – Sono convinto che nessun terrorista si sia mai pentito di quello che hanno fatto. A mio avviso se avessero avuto un minimo di coscienza non avrebbero mai ucciso delle persone in quel modo. Morire come è morto mio fratello non è accettabile e, quindi, è imperdonabile. Le scuse oggi sono fuori luogo e servono solo ad ottenere sconti di pena».

All’ultima conversione di Battisti che, dal carcere di Oristano, dopo anni di latitanza e di fughe in giro per mezzo mondo, ha ammesso, finalmente, le proprie responsabilità, Maurizio Campagna non crede: «Ha avuto una maschera da terrorista negli anni Settanta, l’ha cambiata trasformandosi in uno scrittore noir, per poi cambiarla di nuovo nell’ultimo ventennio come perseguitato politico. Adesso la cambierà ancora facendo credere che dopo 40 anni è un’altra persona».

«Battisti è un delinquente furbo con molte persone che l’aiutano, politici compresi, vedasi i Radicali che fanno di tutto per andare a vedere come sta il poveretto in carcere – dice il fratello di Andrea Campagna – Mia madre si chiedeva sempre perché mai nessun politico andava a trovare le vittime del terrorismo per portar loro conforto».

Maurizio Campagna ricorda così suo fratello, un ragazzo «sereno, gioioso, tranquillo». Cresciuto con il sogno di diventare poliziotto. E finito a fare l’autista alla Digos. Diventò un bersaglio di Battisti e dei suoi complici dei Pac perché «viene ripreso dalla televisione a viso scoperto» nel corso dell’azione che porta all’arresto degli assassinii del gioielliere Pierluigi Torregiani ammazzato, anch’egli, dai Proletari Armati per il Comunismo. «Quell’immagine – si duole ora il fratello Maurizio – segna la sua condanna a morte».

Fu un esponente dei Pac, che abitava nel quartiere della fidanzata a riconoscerlo in televisione, avendolo visto in zona. E, da lì, partì l’operazione dei Pac per ucciderlo seguendo un percorso di «odio che non ha limiti, né ragione», dice ora Maurizio.

Quell’accusa che i Pac gli gettano addosso con disprezzo, come una palata di fango, nel messaggio di rivendicazione definendo l’agente Andrea Campagna un «torturatore» che va «estirpato» per aver usato violenza» verrà «ampiamente provata come falsa e menzognera nel corso del processo», ricorda Maurizio. Che domani lo ricorderà nella cerimonia pubblica che Milano gli dedica ogni anno.

La Magnum 357 verrà trovata proprio nell’appartamento di Cesare Battisti a Milano nel corso di una retata che portò in carcere una quarantina di persone. Diversi pentiti confermarono, poi, quello che gli investigatori avevano già intuito. Ma Battisti, condannato in contumacia a 13 anni per l’omicidio Torreggiani era riuscito comunque a scappare dal carcere di Frosinone grazie a un commando dei Pac che vi fece irruzione e che riuscì a liberarlo.

«Fare memoria di Andrea è importante – dice Maurizio – perché il suo sacrificio non sia stato compiuto invano, la sua memoria sia per tutti un monito contro la violenza cieca del terrorismo e il suo ricordo non sbiadisca».
E a chi invita in cattedra gli ex-terroristi, Maurizio ribatte: «Diversi terroristi hanno chiesto ai familiari delle vittime di essere perdonati, spesso per ottenere ulteriori agevolazioni non solo di pena. Un assassino non può essere considerato con più benevolenza perché assolto dai parenti delle vittime. Il diritto alla vita è inalienabile. Chi non lo rispetta può essere perdonato solo dalla vittima diretta, in un momento intimo e riservato, evitando qualsiasi spettacolarizzazione. Non si sollecitino quindi i familiari delle vittime del terrorismo a perdonare».

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