L’emigrazione è una tragedia per i migranti ancor più che per i paesi d’arrivo che li accolgono
Riceviamo da Carlo Ciccioli e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
Il tema del giorno è quello di Ousseynou Sy, senegalese, 47 anni, autista di scuolabus, che ha sequestrato 51 ragazzini delle medie ai quali ha tentato di dar fuoco incendiando il pulman che guidava; nel suo piano sconclusionato sarebbe dovuto arrivare all’Aeroporto milanese di Linate con il suo carico, determinando una strage che si sarebbe dovuta concludere con il suo suicidio.
Per fortuna l’allarme dato da uno dei ragazzini, girato dai suoi genitori immediatamente ai Carabinieri, ha interrotto l’esecuzione del progetto raccapricciante. Motivazione confusa, quella di protestare contro il blocco delle navi dei migranti provenienti dal Nord-Africa in Italia.
Dietro questo episodio c’è in realtà una persona che si è scompensata psichicamente, al punto di non riuscire, per fortuna, a portare a termine neppure il suo folle piano. Ma questo che prendiamo come episodio simbolo è la fotocopia di migliaia di altri episodi il cui protagonista, a causa dell’esperienza migratoria, scivola nel disturbo mentale. Basta sfogliare la cronaca di migliaia di episodi sulla stampa, da quelli estremi del ghanese Kabobo che uccise tre passanti a caso per strada a Milano, ferendone altri, al caso di Innocent Oseghale che dopo aver ucciso a Macerata la povera Pamela, ne taglia a pezzi il corpo dopo averlo lavato con la candeggina o il nigeriano Precious Omobogbe che a Jesi si scaglia senza ragione con un machete contro vetrine e passanti, e che per fortuna venne bloccato e disarmato da un coraggioso Ufficiale dei Carabinieri. Questi, insieme a tanti altri episodi di violenze sessuali e stupri imprevedibili, di aggressioni e risse senza ragione, di danneggiamenti e vandalismi incongrui.
Aldilà delle favole, “su quanto è bello migrare della sinistra”, dei radical chic, dei buonisti cattocomunisti, in realtà l’emigrazione è un processo fonte di un drammatico stress, tanto che la letteratura medica è ormai concorde ad affermare che costituisce un fattore scatenante per le patologie mentali, prevalentemente nell’area schizofrenica. Le difficoltà a superare le barriere culturali e linguistiche, lo sradicamento fisico e culturale dal proprio paese di origine, dai paesaggi della propria terra, dalla lingua madre, dai propri usi, costumi ed abitudini, dallo status sociale, la lontananza dai propri cari, dalla propria struttura familiare e amicale, la frequenza ad essere esposti a situazioni estremamente a rischio come la prostituzione, la criminalità, la detenzione, la tossicodipendenza e l’alcoolismo rappresentano una sorta di “rivoluzione” dell’identità, dei ruoli, delle scelte di vita, che facilitano lo scivolamento verso forme gravi del disagio psichico. L’incertezza del proprio stare nel mondo, della perdita della traccia di sé, della perdita delle relazioni interpersonali, le biografie al confine tra normalità e condotte di emarginazione, dei vissuti persecutori, dei fattori squassanti i pilastri dell’identità concorrono ad accrescere il rischio di tali disturbi mentali. La separazione rispetto al contesto familiare, affettivo, sociale e culturale originario, la partenza, il viaggio, l’arrivo e l’incognito, si accompagnano a vissuti di profonda ansia che producono traumatiche rotture degli equilibri preesistenti e generano processi di alienazione e depersonalizzazione, vissuti in condizione di estrema solitudine.
Imponente è l’insorgenza di disturbi depressivi ed ansia determinati da un frequente carico familiare e sociale, da un elevato numero di figli da dover crescere, da violenze domestiche, da uno scarso livello di integrazione sociale e da profonde incertezze rispetto al futuro. Statisticamente dai dati dei Servizi di Salute Mentale emerge che le psicosi dei migranti di prima e seconda generazione sono più del doppio superiori ai nativi. Anzi frequentemente il trauma differito, dal punto di vista psichico, si trasferisce alle seconde generazioni, che sviluppano una rabbia incontenibile ed irrazionale rispetto allo sradicamento dalla società di origine, al punto di odiare la società che li accoglie e trasformarsi in soggetti antisociali o terroristi per vendicare il dolore del trauma.
Questo è frequentissimo nelle società già a forte componente di immigrazione come quella francese, belga, olandese e britannica, conseguenza della loro politica coloniale.
I fattori della genesi del trauma si collocano nella fase migratoria e post-migratoria: durante la fase migratoria il trauma del viaggio, dei sacrifici e spesso delle violenze subite, nella fase post-migratoria la discriminazione, la disoccupazione, il basso status socio-economico, l’isolamento, l’urbanizzazione e spesso la conflittualità con altre etnie e soprattutto la ritraumatizzazione successiva, perchè il Paese ospitante non risponde alle aspettative attese, spesso irrealistiche, caratterizzate da un’assistenza che si conclude con uno stato di abbandono e di deprivazione, senza prospettive, se non nell’illegalità, causata dall’impossibilità a dare risposte alle richieste ai grandi numeri migratori e alla mancanza di strumenti e risorse per affrontare la situazione.
Si determinano persone profondamente fragili, vulnerabili e incapaci ad affrontare esperienze nuove e traumatiche di cui non hanno le capacità a far fronte, cominciando dalla frequente impossibilità ad avere nuovi documenti, dalla necessità di cambiare età e nome per riuscire ad accedere ad alcune forme di assistenza, agli imprevedibili tempi dell’accoglienza stessa, alla percezione di paura e di incertezza che accompagna ogni loro decisione. Di fatto la sensazione continua di paura, di minaccia, di insicurezza, di sfiducia verso gli altri e verso il Paese che li accoglie. Tutto questo porta spesso ad una sofferenza mentale che si traduce in grave disadattamento, atti disordinati, a finalistici, irrazionali, veri e propri disturbi della condotta contro gli altri e talvolta contro se stessi, disturbi ideativi e dei contenuti del pensiero, con perdita di senso di realtà, di critica ed autocritica.
La sensazione di sentirsi in guerra con il mondo e per questo compiere scelte totali distruttive ed autodistruttive.
Ma pur di confermare acriticamente determinate scelte ideologiche, c’è tutto un mondo politico e culturale che nonostante questo, continua ad affermare “quanto è bella la migrazione” e “quanto bisogna far di tutto per far migrare ed accogliere più gente possibile”.