Giudici che odiano le donne: dalle sentenze choc ai soprusi alle avvocatesse incinte

22 Mar 2019 15:08 - di Annamaria Gravino
perugia

Una, due, tre sentenze. E poi certi atteggiamenti incomprensibili. A leggere le cronache, sembra quasi che nella magistratura italiana – o per lo meno in alcuni suoi esponenti – serpeggi un sentimento di disprezzo verso le donne. Ciò che è certo è che, nelle ultime settimane, sono stati inanellati una serie di provvedimenti che lasciano sconcertati e che danno l’impressione che nelle aule dei tribunali italiani si stia facendo un balzo indietro di decenni. Dopo le sentenze secondo le quali una donna poco avvenente non può essere oggetto di violenza e il turbamento di un marito frustrato rappresenta una attenuante nell’omicidio della moglie, ora un giudice ci informa che le donne non ha possibilità di scampo dal femminicidio.

«Il marito l’avrebbe uccisa comunque»: risarcimento ritirato ai figli

La notizia arriva da Messina, dove la Corte d’Appello ha annullato il risarcimento accordato ai tre figli di Marianna Manduca, uccisa nel 2007 dal marito, Saverio Nolfo. Nel giugno del 2017, il primo grado riconobbe la responsabilità civile dei magistrati della Procura di Caltagirone, la loro «grave negligenza» per non aver fatto nulla di fronte alle ben 12 denunce presentate dalla donna contro l’uomo. Nelle ultime la donna aveva parlato anche delle minacce con un coltello. Marianna Manduca fu poi uccisa con 6 coltellate al petto, aveva 32 anni. Ai tre figli, che oggi hanno 17, 16 e 14 anni, dieci anni dopo è stato riconosciuto un risarcimento di 259mila euro da parte dello Stato. Oggi l’Appello chiede ai ragazzi di restituire quei soldi perché «il marito l’avrebbe uccisa comunque». «Nemmeno l’interrogatorio dell’uomo avrebbe impedito l’omicidio della giovane donna», ha scritto i giudici nella sentenza di cui ha dato conto il Corriere della Sera, sottolineando «il radicamento del proposito criminoso (di Nolfo, ndr) e la facile reperibilità di un’arma simile (il coltello, ndr)». «La Corte d’Appello dice agli orfani e a tutti noi che quel femminicidio non poteva essere evitato, che denunciare i violenti è vano», ha commentato Mara Carfagna, fra le prime a denunciare lo scandalo di questa ennesima sentenza contro le donne.

Le barricate per il diritto alla maternità

Ma nei tribunali non succede solo questo. Il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma ha denunciato due giorni fa il caso di un’avvocatessa incinta cui era stato negato il rinvio di un’udienza, richiesto in ragione della sua maternità. La professionista finisce il tempo il 17 aprile, l’udienza in questione era fissata per il 16. Il 5 marzo la donna ha presentato un’istanza con la documentazione necessaria, ma il giudice ha risposto che prima di decidere voleva acquisire le «determinazioni della controparte, attesa – ha reso noto l’Ordine degli avvocati – la natura del procedimento e degli interessi sottesi». Si tratta di una causa di divorzio. A rendere ancora più sconcertante la faccenda c’è il fatto che la stessa udienza era inizialmente fissata per il 31 ottobre ed era stata rinviata dal giudice «con buona pace – si legge sul giornale online Pianeta Giustizia – della “natura del procedimento e degli interessi sottesi” che evidentemente sono cedevoli rispetto alle esigenze organizzative del Tribunale, ma non di fronte ai sacrosanti diritti della difesa, della collega e del nascituro». Constatata «la gravità dei fatti» il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Antonino Galletti, non solo ha denunciato la vicenda a tutti gli organi del tribunale competenti, ma ha anche fatto sapere che era pronto a convocare un consiglio dell’Ordine straordinario nello stesso giorno e nella stessa ora in cui si sarebbe dovuta svolgere l’udienza della collega incinta. Alla fine all’avvocatessa è stato concesso il rinvio. Ma per il riconoscimento di un diritto che dovrebbe essere scontato ci sono volute quasi le barricate. Inoltre, a quanto si capisce dai commenti di molte colleghe della professionista, non si tratta affatto di un caso isolato. E anche questa è una forma di violenza consumata nei tribunali italiani a danno delle donne. E, in particolare, di quelle in una condizione di maggiore fragilità.

 

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