Klm e Airbus: un modello di integrazione dell’industria europea che (per fortuna nostra) entra in crisi
In questi giorni sono accaduti due episodi che la stampa nazionale ha minimizzato in quanto testimoniano il fallimento modello di sviluppo europeo così come lo abbiamo conosciuto fino ad ora. Il primo è l’annuncio di AIRBUS di voler sospendere la produzione dell’A 380, ovvero il più grande aereo da trasporto civile che l’azienda europea, o meglio, l’azienda franco tedesca avesse in produzione. Un progetto ambizioso annunciato come il compimento della progressiva integrazione delle filiere aerospaziali continentali. Ciò che è Francia e Germania è, nella narrazione dominante, Europa; il fatto che British Aerospace e l’italiana Alenia Aeronautica non stiano nella partita è, per chi vede l’Europa come un dogma, un dettaglio assolutamente trascurabile. Mentre AIRBUS ferma l’A 380 l’italiano Alenia continua a lavorare in partnership con Boeing, azienda leader a livello planetario, alla costruzione del Boeing 787.
L’altra notizia è più attuale e investe indirettamente il dibattito che da anni ruota attorno ad Alitalia. La nostra compagnia di bandiera, secondo molti esponenti del governo Renzi e Gentiloni doveva confluire in nel gruppo AirFrance – KLM ovvero nell’alleanza tra le compagnie di bandiera di Francia ed Olanda. Il ruolo? Semplice, una compagnia che operava nel medio raggio con l’obiettivo di portare traffico intercontinentale a Parigi per fare dell’aeroporto Charles de Gaulle il più grande scalo continentale, per fare di Air France una compagnia in grado di competere ad armi pari con Lufthansa e British Airways. Al disegno di una grande compagnia europea con baricentro francese hanno creduto, fino a ieri, gli olandesi di KLM, fino a quando anche loro si sono resi conto che, due concetti propagandati da chi spaccia i pur legittimi interessi nazionali per valori europei, necessitavano di essere approfonditi e ridiscussi. Il primo è il confine esistente tra pubblico e privato. Se da una parte KLM è una società privata dall’altra lo Stato francese detiene il 14% delle quote azionarie della compagnia. Ora non bisogna essere docenti di economia industriale per capire che se si fa una società ed uno dei due soci è lo Stato la posizione dell’altro socio è quantomeno scomoda. Il secondo concetto sul quale lo Stato olandese deve aver riflettuto è se è giusto o meno farsi imprenditori per difendere un legittimo interesse nazionale. Il risultato lo possiamo leggere sui giornali in questi giorni. Lo Stato olandese ha rastrellato il 16% delle azioni della joint venture ed è diventato il primo azionista della compagnia. Le reazioni in una Parigi, evidentemente convinta del fatto che qualsiasi azienda europea fosse simile a Parmalat, per citare un caso di acquisto predatorio fatto ai danni di una società italiana, e che tutti i governi fossero uguali a quello italiano è stata di grande irritazione. Hanno definito la mossa olandese come un atto ostile. Un “atto ostile” che segna una svolta epocale, una svolta che speriamo possa insegnare qualcosa anche in Italia.