“Fiero di essere un migrante gay e spudorato”. Alla notte degli Oscar sfilano gli anti-Trump

25 Feb 2019 16:45 - di Laura Ferrari

«Abbiamo fatto un film su un omosessuale immigrato, che ha vissuto una vita spudorata. E il fatto che questa sera stiamo festeggiando lui e la sua vita è la prova che abbiamo bisogno di storie come questa». Nelle parole di Rami Malek, vincitore dell’Oscar per il ruolo di Freddy Mercury in “Bohemian Rapsody”, c’è la plastica rappresentazione della notte appena celebrata a Hollywood.

“Ha vinto l’Oscar il più brutto film degli ultimi 15 anni”

Un carrozzone allestito per trasmettere messaggi politici ancora prima che artistici. Così molti delle statuette assegnate avevano un chiaro riferimento contro le politiche di Donald Trump. Prendete il film che ha vinto l’Oscar come migliore pellicola. “Greeen book”, storia di un’amicizia tra una pianista jazz nero e il suo autista bianco nell’America degli anni ’60. La sintesi migliore l’ha fornita il quotidiano Los Angeles Times: “Erano almeno quindici anni che un film così brutto vinceva l’Oscar”. Secondo il quotidiano Usa bisogna tornare al 2007, quando il dimenticabile film Crash, gurdacaso anch’esso dedicato ai temi dell’integrazione e dell’immigrazione. E guardacaso con i democratici all’opposizione furente di un presidente repubblicano, in quel caso George W. Bush. 

Freddy Mercury durante uno dei suoi party

Oscar anti-Trump anche al messicano Cuaròn

Insomma, Hollywood si risveglia come un vulcano dimenticato, ogni volta che i dem non sono più al potere. E a quel punto scatena l’artiglieria “pesante”. Pesante nel senso dell’insostenibile pesantezza delle pellicole. Così il messicano Alfonso Cuaròn vince tre Oscar con il film Roma. Una sorta di Amarcord alla messicana, girato in bianco e nero nella Città del Messico degli anni ’70. Chi è abbonato Netflix può valutarlo senza necessità di andare al cinema. Ma proprio l’assenza di film che ti invogliano a fare la fila al botteghino è la grande lacuna dei film premiati in questa occasione. Come se il magico mondo del cinema si fosse fermato a guardarsi l’ombelico. O, peggio, avesse deciso che gli spettatori vanno indottrinati. Perché l’idea che la maggioranza delle persone possa votare Trump o altri leader sovranisti nel mondo, non va proprio giù ai cinematografari americani. La speranza è di far loro cambiare idea: attraverso delle pellicole di propaganda, come ha candidamente ammesso Malek. “Sono figlio d’immigrati anche io – ha detto l’attore di origine egiziana – e abbiamo bisogno di storie come quella di Freddy Mercury“. Tanto per la cronaca, il cantante dei Queen è morto di Aids, dopo una vita di droga e di eccessi. Raccontarla è legittimo. Farne un santo, anche no.

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