Cold War, il film anticomunista di cui nessuno parla è assolutamente da vedere (video)

3 Gen 2019 11:35 - di Vittoria Belmonte

Premiato a Cannes per la miglior regia, trionfatore agli European Film Award, il film Cold War (Guerra fredda) del regista polacco Pawel Pawlikowski racconta l’intensa storia d’amore tra il musicista  Wiktor (Tomasz Kot) e l’allieva Zula (Joanna Kulig), promettente ballerina del gruppo di danze e cori folkloristici che si esibisce nella Polonia comunista del 1949 sotto le gigantografie di Stalin.

Il gelo è la metafora del comunismo

Arrivati a Berlino Est per un’esibizione, Wiktor organizza la fuga dall’altra parte del blocco per vivere finalmente in libertà quella storia d’amore. Ma Zula, contro ogni previsione, non si presenta all’appuntamento concordato. Ne nasce una serie di incontri e abbandoni tra i due che costellano un rapporto tormentato, che non riesce ad essere armonioso né nell’Est Europa totalitario né nella Parigi dell’Occidente libertino e corrotto e che può ritrovare un senso solo tra i ruderi di una chiesa. Quelle rovine stanno lì ad evocare le radici di una tradizione religiosa offuscata e calpestata dal comunismo sovietico. Il film non solo è assai raffinato nell’uso convincente del bianco e nero ma è anche esteticamente perfetto nel restituire allo spettatore la metafora del comunismo incarnata negli scenari innevati e desolati. Si avvale inoltre di una fotografia superlativa e sfrutta la sapiente ricostruzione delle ambientazioni in un’Europa ferita dalla cortina di ferro. Il gelo, la solitudine, l’aridità sono le cifre di una società totalitaria dove amarsi è impossibile. Un orizzonte angosciante che si schiude ai raggi del sole solo quando i due protagonisti possono liberamente abbracciarsi senza pensare alle trappole dello spionaggio e alla violenza dei campi di rieducazione.

Il regista si è ispirato alla vita dei genitori

Pawlikowski, già vincitore di un premio Oscar nel 2015 con il film Ida, ha spiegato che dietro la storia d’amore raccontata in Cold War c’è anche un po’ dell’inquieto rapporto tra i suoi genitori.  “La madre – leggiamo sul sito Cinematographe.it – era una ballerina polacca cresciuta in un ambiente tradizionalmente cattolico, la quale a sua volta ha educato il figlio in modo rigorosamente religioso. Nonostante l’accentuata, in certa misura infantile, spiritualità, la madre di Pawlikowski era intimamente una ribelle e viveva all’insegna di un’esuberanza interiore che sfiorava il tumulto. Il padre, medico, era, invece un ateo di origine ebraiche, che detestava presentarsi in società come ebreo, non tanto per vergogna quanto per insofferenza alle etichette: solo quando il figlio era ormai cresciuto gli confessò che sua madre, dunque la nonna paterna del regista, era morta ad Auschwitz.  Nel 1968 il padre lasciò la Polonia per l’Austria e poi la Germania, dove si riconciliò con la moglie prima di separarsi di nuovo da lei”. 

 

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