Un convegno a Roma sullo studioso, poeta e traduttore Pietro Tripodo

8 Nov 2018 15:36 - di Rocco Familiari

Oggi, nella sala del Primaticcio della Società “DANTE ALIGHIERI”, in via Firenze, a Roma, si è svolto un convegno sulla figura e l’opera di Pietro Tripodo, un raffinato studioso, poeta e traduttore, scomparso purtroppo prematuramente. Al convegno, introdotto da Salvatore Italia, parteciperanno, fra gli altri, Raffaele Manica (che farà anche da moderatore), Giovanni Antonucci, Gianfranco Bartalotta, Claudio Strinati, Rocco Familiari. Di quest’ultimo pubblichiamo l’intervento dedicato alle traduzioni delle poesie di George e Trakl che Tripodo pubblicò rispettivamente con la casa editrice Fazi nel 1995 e con la Salerno nel 1991.

Preambolo

Pietro Tripodo è una personalità complessa e sfaccettata del vasto mondo delle lettere, spesso popolato di astri effimeri, che forse non ha avuto i riconoscimenti che meritava. Per fortuna i suoi libri testimoniano la profondità del suo impegno e la vastità e raffinatezza dei suoi interessi.

Avevo letto, tanti anni addietro, il suo prezioso volume su Trakl (Liriche scelte, edito da Salerno nel 1991), ma, pur avendo apprezzato l’acutezza della nota introduttiva e l’accuratezza dell’apparato critico, il suo nome non mi era rimasto impresso nella memoria, malgrado io sia sempre molto attento al lavoro dei traduttori, dai quali soprattutto posso dire di aver appreso a “leggere e scrivere”, essendo un assiduo frequentatore più di testi stranieri che italiani.

Rileggendolo, ho avuto modo di riconoscere, ancora una volta, la vasta cultura e il rigore metodologico dell’esegeta, ma mi ha sorpreso l’attualità, la freschezza, del suo approccio ai testi tradotti, da poeta a poeta.

Nell’introduzione, breve, ma incisiva, Tripodo riporta un pensiero di Valery, secondo il quale ogni opera è infinitamente interpretabile e quindi infinitamente traducibile. E’ una sorta di manifesto ideologico del lavoro del traduttore, che spesso, anzi quasi sempre, è chiamato a giustificarsi delle scelte operate, ma prima di tutto, per aver osato “profanare” la sacralità di un testo che, nato in una lingua, verrebbe snaturato da qualsiasi tentativo di trasposizione in un altro idioma. Ho avuto già occasione di scrivere quello che penso in proposito, nel commento alla mia traduzione di Wozzeck, pubblicato da “Pagine” nel 2016. In questa sede non posso che ribadirne il concetto essenziale e cioè che l’uomo è, per natura,traductor,la sua attività fondamentale e permanente essendo quella di tradurre, di trasferire cioè linguaggi, codici linguistici, da un sistema all’altro. Ciò, sia quando legge, quando fruisce un’opera d’arte, o quando la interpreta – esempio supremo l’interpretazione musicale – per cui la trasposizione di un’opera, di narrativa o di poesia, di filosofia piuttosto che di teologia, da una lingua all’altra, non è un “tradimento”, come si ama, quasi masochisticamente, dire, ma un’ordinaria attività di interpretazione, la forma più sottile di interpretazione direi, che spesso arricchisce l’opera stessa.

Le scelte di Tripodo traduttore: George, Trakl e Arnaut

Tripodo è indubbiamente affascinato dalle scritture non facili. Le sue scelte lo provano. Trakl e George, i due poeti di lingua tedesca forse più complessi, nei quali l’oscuro è elemento quasi strutturale delle loro opere. Come nota lo stesso Tripodo, “Dunkel”, appunto “oscuro”, è uno dei termini più ricorrenti nelle poesie di Trakl, insieme con l’opposto “sanft”, e io aggiungerei “Blau”, che è sì “azzurro”, ma non l’azzurro del cielo o del mare, bensì quello del livido, della carne putrefatta. E ciò vale anche per George. Non c’è il tempo di farlo qui, ma sarebbe interessante una riflessione sulle ragioni della fortuna di quel colore nell’arte degli inizi del Novecento, penso al “Blaue Reiter”, ai cavalli blu di Marc, al periodo blu di Picasso (volendo si può arrivare fino al più recente Blu di Klein e al recentissimo Blu Oregon, inventato in laboratorio da Mas Subrainam), oltre che naturalmente alla massiccia presenza del termine “Blau” nelle liriche di George, Trakl, ma anche Benn, il solo a cui Trakl venga accostato, per livello di ispirazione e di esiti poetici.

E dopo Trakl e George, il suo Arnaut Daniel, dico suo, perché ormai acquisito alla nostra cultura attraverso la sua imprescindibile interpretazione (uso volutamente il termine al posto di “traduzione” – ricordo che i latini usavano in tale accezione giustappunto il termine interprese non traductor).

George e Trakl

George e Trakl si potrebbero definire due poeti agli antipodi, il campione del neoclassicismo il primo, per il quale ogni immagine, ogni emozione, ogni concetto deve trovare la sua risoluzione, purificazione se si vuole, nel linguaggio, cesellato come un gioiello, e il poeta della “sprezzatura” linguistica il secondo, concentrato essenzialmente su ciò che sta sotto il linguaggio, che viene prima del linguaggio e che lo trascende.

Dei due, è George ad aver esplicitato chiaramente la propria poetica di opposizione al naturalismo, quella scuola, come la definisce “nata da una errata concezione della realtà”. Egli è convinto, al contrario, che “ogni evento, in ogni epoca, è solamente un mezzo per uno stimolo artistico” e che “il valore della poesia non lo decide il significato, altrimenti sarebbe saggezza, erudizione, bensì la forma … che ha distinto in tutti i tempi i maestri dagli artisti di secondo ordine”.

La forma perciò, oggi diremmo il “significante”, una volta assurta a valore assoluto, che prescinde sia dal dato di realtà, sia dal contesto storico-sociale, sia infine dallo stesso “significato”, tende necessariamente all’ambiguità, se non addirittura all’oscurità, come connotato strutturale della sua ragion d’essere. In un punto del diario di Gide del 7 aprile 1908, che Tripodo pone come introduzione ai “Canti del sogno e della morte” da lui tradotti, vi è un passo involontariamente (o volutamente) ironico: “meravigliosa la testa di George, del poeta che da tanti anni desideravo conoscere, e di cui ammiro l’opera ogni volta che mi riesce di comprenderla”.

Anche se non esistono dichiarazioni programmatiche altrettanto chiare da parte di Trakl, la distanza fra i due, alla… distanza da cui ormai li osserviamo, appare meno ampia di quanto potrebbe sembrare. Alla fine, l’esigenza di perfezione dell’uno e l’impellenza dell’altro di dare libero sfogo, come una colata di acciaio fuso, agli urli, alle esecrazioni, ai pianti, ai lamenti, trovano un punto di incontro: la necessità, per entrambi, di trovare comunque un ritmo, uno stampo, in altri termini, sempre la “forma”.

Ma l’elemento che più li accomuna è l’inclinazione all’oscurità, voluta, cercata, come connotato del sacro, come “perturbazione” di un ordine che rischierebbe, se lasciato intatto, di riuscire fuorviante rispetto alle intenzioni dell’autore. E comunque, falso.

Utilizzo, a tal proposito, alcune considerazioni di Klages, prelevate dal saggio che precede le poesie di George tradotte da Tripodo nel volume edito da Fazi nel 1995 (L’anima e la forma), che possono riferirsi tranquillamente anche al procedimento usato da Trakl: “Poter concentrare in poche sillabe ciò che l’intelletto separa accuratamente. Lo stile intuitivo è uguale a se stesso perché, disdegnando la chiarezza del pensiero, ammassa a cataratte le parole. E’ proprio quel che accade con gli incantesimi, la mantica e gli esorcismi.”

E, a proposito di “divinazioni” poetiche, è interessante la lettera che George scrisse a Hofmannsthal il 21 agosto 1896: “Nel suo angusto paese aleggia una corrente d’aria stanca e abbandonata, e tutta la sua gioventù ha qualcosa di invertebrato, con escrescenze esterne, e si compiace di una degenerazione superficiale e dolciastra”.

Lettera mai spedita, che, oltre a contenere un giudizio sulla gioventù austriaca che sembra potersi attagliare almeno a un certo aspetto della poesia di Trakl, venne interpretata da alcuni critici come una sorta di anticipazione dell’Anshluss. Più convincente che George avesse intuito, con la capacitàprofeticache è propria dei poeti, ciò che quella “corrente d’aria stanca e abbandonata” avrebbe prodotto nello spirito e quindi nelle conseguenti azioni dei giovani austriaci, non differenti peraltro da quelle di tutta la gioventù europea, che sarebbe stata falcidiata dalle due guerre universali del secolo più lungo della storia. Nel caso di Trakl la “profezia” si avverò purtroppo in senso letterale: arruolato come operatore sanitario si trovò a dover assistere, da solo e senza mezzi adeguati, un centinaio di feriti gravi, e la tragica esperienza lo sconvolse a tal punto da spingerlo al suicidio: un primo tentativo non riuscì grazie all’intervento dei commilitoni, ma, internato in una casa di cura per malattie mentali, si lasciò morire per un’overdose di cocaina. Per inciso, è rilevante il gran numero di medici-scrittori nella letteratura moderna, cominciando da Büchner, a Cecov, Schnitzler, Carossa, Baroja, fino a Benn e appunto Trakl, che non era medico, ma farmacista, utilizzato però, come accennato, in mansioni di operatore sanitario.

Tornando alle “oscurità” della poesia di Trakl, non c’è dubbio che certe relazioni appaiano pericolosamente al limite del gratuito, tanto da far pensare a un qualche “effetto collaterale” delle droghe di cui il poeta era abituale consumatore. Chiusano, uno dei germanisti più acuti e non convenzionali (“un germanista senza cattedra”, come si definiva) lo “insinua” elegantemente: “le ombre della droga e dell’alcoolismo, cui forse non è detto non siano da ascrivere certe splendide oscurità che animano i suoi versi”.

E’ pur vero che il genio è colui che riesce a creare relazioni inusitate fra realtà note, ma non devono essere totalmente randomiche…

Ricordo di aver letto da qualche parte, ma può anche darsi di no (alla mia età, dopo aver tanto letto e scritto, è facile confondersi…), che un pittore inseriva nei suoi quadri un piccolo dettaglio assolutamente dissonante con l’opera. A che gli chiedeva perché lo facesse rispondeva: “Non lo so, ma chi lo guarderà, si farà la stessa domanda, e questo sarà sufficiente ad aprire un varco, a creare un ponte.”

Non a caso Trakl suggestionò Heidegger, il filosofo che, nella seconda parte della sua vita, fece del linguaggio e della sua potenza evocativa il fondamento, l’essenza, il fine stesso forse della filosofia, e le cui “oscurità” sono ben altre rispetto a quelle di Trakl…, anche se non dovute, forse, alle stesse ragioni.

Ebbene, Heidegger si è posto il problema dell’oscurità, più o meno “splendida”, delle poesie di Trakl, troncando di netto la questione: “La molteplicità dei significati propria di questo dire poetico non è l’imprecisione di chi lascia correre, bensì il rigore di chi lascia essere, di chi si è impegnato nella disciplina del ‘retto contemplare’, docilmente conformandosi alle sue leggi”.

Trakl e Heidegger

E’ opportuno spendere ancora qualche parola sul rapporto fra Heidegger e la poesia di Trakl, perché le analisi che il filosofo fa delle liriche trakliane, sono anche importanti ai fini della sua interpretazione e quindi possono influenzare le scelte del traduttore, tant’è che anche Tripodo vi torna spesso, sia nell’introduzione, sia nei commenti alle liriche da lui rese in italiano.

Com’è noto, il filosofo tedesco, tuttora assai discusso per la sua, convinta o necessitata, adesione al nazismo, non terminò la sua opera più importante,di cui pubblicò le prime due parti, ma non la terza. La giustificazione che ne dette, molto tempo dopo, fu, com’era nel suo stile, perentoriamente autocelebrativa: “Il difetto fondamentale del mio libro Sein und Zeitè che ho osato spingermi troppo presto troppo lontano”.

Ebbene, negli stessi anni in cui la fisica, con la teoria della relatività, quella quantistica, e il conseguente principio di indeterminazione, capovolge le idee tradizionali e cerca una teoria generale che tenga insieme la macrofisica e la fisica delle particelle per unificare le leggi fondamentali dell’universo, Heidegger, con il suo Sein und Zeit,cerca di costruire un modello metafisico che anch’esso tenga tutto insieme, sul versante delle scienze umane, ma si arrende, si ferma e decide, intuisce, che la poesia è la sola chiave interpretativa possibile della complessità dell’universo, reale e concettuale. Rivolge pertanto la sua attenzione a tre poeti “abitati dagli dei”: Hölderlin prima di tutto, su cui scrive il saggio forse più bello della sua produzione e da cui assume una sorta di legittimazione di questa sua scelta: l’ultimo verso della poesia Andenken, da lui tormentosamente analizzata recita: “ciò che resta lo creano i poeti” (il verbo tedesco “stiften” ha parecchie accezioni oltre a quella da me scelta: decidono, stabiliscono, istituiscono, fondano, offrono, donano, provocano; Heidegger sembra privilegiare, di questi significati, quello che tradurremmo con “istituiscono”).

C’è una singolare, illuminante coincidenza con le più recenti posizioni dei fisici sempre a caccia della legge fondamentale dell’universo, della particella di Dio, della quadratura perfetta (Heidegger parla anch’egli di Geviert) che tenga tutto insieme, macrofisica, microfisica, evoluzione (espansione dell’universo), creazione (bin bang), i quali convengono che bisogna partire da un modello in qualche modo poetico, da un’intuizione, da un’idea “elegante” (la teoria delle stringhe, ad esempio, una delle più recenti e, appunto, eleganti).

Accanto a Hölderlin, il filosofo pone Trakl e Rilke. Una sua personale triade di vati (l’inclinazione alla sistematicità è più forte di tutto) capaci di fornirgli gli strumenti ermeneutici (l’ultima parte della sua ricerca è dedicata proprio all’ermeneutica, con la suggestiva analisi dell’etimologia del termine, derivato da Ermes, messaggero degli dei) necessari ad aprire le porte della conoscenza. Tre poeti “oscuri” (sia pure con un diverso grado di oscurità).

Di Trakl, Heidegger si occupa in due testi. Nel primo analizza una sola poesia Una sera d’inverno(stranamente non inclusa da Tripodo fra quelle da lui tradotte, anche se, nelle note a commento, la cita più volte), prescindendo sia dalla vicenda personale dell’autore, sia dal contesto in cui Trakl opera. Nella lirica in questione vi sono immagini come “il cadere della neve”, “il risuonare della campana nella sera”. Heidegger sostiene che le cose, per il solo fatto di essere nominate, le azioni, per il fatto di essere descritte, “sono presso di noi”, ma senza che ciò annulli la distanza fra noi e loro, per cui sono vicine e lontane al tempo stesso. Noi diremmo, più semplicemente, che sono immagini “evocative”.

In un successivo lavoro dedicato a Trakl, prende in considerazione l’intera sua produzione, dalla quale estrae, di volta in volta, versi sui quali imbastisce una sua personale, senz’altro originale, riflessione, che fa di Trakl, il “cantore di una nuova alba”, non dell’assoluto, ma della totalità (introducendo un tema sul quale varrebbe la pena soffermarsi: il rapporto fra l’Uomo-massa e il Superuomo), il poeta dell’Abendland (la terra del tramonto, che è anche la terra del crepuscolo del mattino, dell’alba salvifica).

Altre poesie citate da Heidegger: Primavera dell’anima, per il verso “E’ l’anima straniera sulla terra”, Tramonta nella quiete e nel silenzio,Azzurra fiera,Verklaerter Herbst(che rimanda alla famosa composizione di Schönberg, Verklaerte Nacht),Sommerneige,Crepuscolo spirituale, in cui Trakl definisce l’anima “Herbseel”, cioè “anima autunnale”, Il dipartito,Heiterer Fruhling , Fanciullo morto, Poetare è ascoltare

Il poeta traduttore

Orbene, come affronta il traduttore Tripodo, ma soprattutto il poeta Tripodo, questi due mondi letterari e psicologici?

Con umiltà, mettendo al servizio dei due poeti di lingua tedesca la sua passione, la sua sensibilità, il suo orecchio musicale, la padronanza delle due lingue, quella di origine e la propria, ma anche la sbalorditiva cultura, che gli consente di contestualizzare perfettamente l’opera dei due scrittori e dar conto, intanto nella resa dei testi poetici, e poi nell’apparato critico, estremamente puntuale e documentato, delle ragioni profonde delle sue scelte linguistiche e formali, quasi totalmente condivisibili. Il “quasi” è d’obbligo, per evitare il rischio della “condiscendenza” tipica dei convegni celebrativi. Ma Tripodo non ha bisogno di condiscendenza, regge benissimo anche critiche acuminate…

Non cerca effetti facili o scorciatoie ermeneutiche, i riferimenti alla biografia dei poeti sono quelli strettamente indispensabili, senza compiacimenti torbidi, nel caso di Trakl; eppure la sua vicenda umana, il suicidio o il lasciarsi morire per overdose a soli ventisette anni, il rapporto, forse incestuoso, con la sorella Grete, una pianista geniale da lui iniziata alle droghe e poi suicida anche lei, si presterebbe a utilizzi impropri.

Il metodo critico di Tripodo si potrebbe definire “strutturalistico”, ma senza la maniacalità, tipica dei mediocri che fanno del metodo un feticcio, a scapito dell’attendibilità delle analisi testuali.

Rileva quella che si potrebbe definire con un brutto neologismo, le tecnicalità di Trakl, ad esempio il ricorso frequente, abituale anzi, alla paratassi. Che è, direi, quasi connaturato al tipo di poesia. La paratassi è infatti propria dello stile profetico, cioè assertivo-evocativo. L’archetipo, il modello inimitabile, è il Vangelo non sinottico, quello di Giovanni, dove l’uso della paratassi semitica conferisce alla sua cronaca della vita di Gesù, in buona parte analoga a quella dei suoi “colleghi” evangelisti, un surplus di suggestione, di capacità evocativa. Anche l’ultimo dei “profeti”, Wojtyla, non il papa, ma lo scrittore, nei suoi lavori teatrali ne fa un uso sistematico. Nell’opera più nota,Davanti alla bottega dell’orefice, i personaggi infatti non dialogano fra loro, ma si rivolgono direttamente al pubblico, esprimendo concetti o emozioni con un linguaggio appunto fortemente evocativo.

Tripodo prende elegantemente le distanze dalla querellesull’appartenenza o meno di Trakl all’Espressionismo, anche se la risposta potrebbe avere una qualche importanza per la chiave interpretativa, per definire certe accentuazioni di tono, esasperazioni di senso, come in una partitura, per esempio, le indicazioni “Molto grave” o “Pianissimo” determinano il tocco del pianista. Sia Mittner sia Enzensberger, peraltro considerano Trakl distante dall’Espressionismo. Per Tripodo “nessuna cosa è più distante dall’espressionismo quanto la pretesa estetizzante propria al milieudell’arte per l’arte. Ma Trakl, già così appartato … antico greco sprofondato in se stesso, rifiuta la possibilità di fondersi in un coro”. Secondo Mittner, Trakl è “il solo vero classico della poesia tedesca del Novecento”, giudizio opinabile come sempre accade quando si isola da un contesto culturale ampio una sola figura. E George, allora? O Hofmannsthal, definito “classico” appena diciassettenne quando pubblicò, con lo pseudonimo di Loris,un lavoro teatrale e le sue prime liriche che fecero pensare a un poeta maturo e non certo a un liceale. Ma soprattutto Rilke, autore di quell’“Orfeo. Euridice. Ermes”, che Brodskij sostiene essere l’opera più alta di tutta la letteratura moderna. Tripodo sostiene acutamente che “a differenza di Hofmannsthal e Rilke, egli appare in più diretto contatto con una dimensione tragica (che) sembra straripare senza mediazioni alcuna da e in quel mondo di simboli – e non solo di simboli (tutto, nella poesia di Trakl, è tremendamente reale). Chiusano invece lo cita fra gli esponenti di primo piano della poesia espressionista (accanto a Benn), a suo dire di gran lunga superiore alla narrativa o perfino al teatro, anche se quest’ultimo ha avuto certamente una risonanza maggiore. Ma egli sostiene che, alla distanza, il teatro espressionista si mostri piuttosto datato e di corto respiro, giudizio che, a mio parere, andrebbe esattamente capovolto.

Nel caso di Trakl infatti, l’aspetto più espressionistico si ritrova piuttosto che nelle liriche (solo in poche è rintracciabile un qualche influsso), nelle due opere teatrali che mise in scena. Sono esasperate (come lo sono quelle considerate tipiche dell’Espressionismo teatrale, da Assassinio, speranza delle donnedi Kokoschka, a Il figliodi Hasenclever o Una stirpedi Fritz von Unruh), ma non possiedono autentica forza drammaturgica, tant’è che ebbero scarso successo.

Ho citato Kokoschka: Trakl lo frequentò assiduamente. Ed è interessante una testimonianza di quest’ultimo a proposito di un episodio accaduto mentre lui stava dipingendo il grande quadro “La sposa del vento”, ora conservato al Kunstmuseum di Basilea, in cui si raffigura insieme con Alma Mahler, la vedova del grande compositore boemo, che egli amò fino alla follia. In senso letterale, nel senso cioè che quando la bella, ma piuttosto incline all’infedeltà, Alma, dopo un anno di intensa passione, lo abbandonò per sposare il più rassicurante Gropius, il grande architetto fondatore del Bauhaus, egli dette di matto e si fece costruire, com’è noto, una bambola con le fattezze della fedifraga (piuttosto orrida, a quanto si può constatare dai suoi stessi disegni e da un quadro in cui la raffigura), con la quale usciva in carrozza, andava al ristorante, all’opera, fino a quando la bruciò platealmente in piazza.

Siamo nel luglio del 1914, e la prima guerra mondiale, quella che Arnold Zweig definirà “la grande guerra degli uomini bianchi”, sta per scoppiare. ” Una sera” – scrive Kokoshka – “il poeta Georg Trakl arrivò nel mio squallido studio, nel quale avevo dipinto di nero le pareti per far risaltare di più i miei colori.[…] l’arredamento della stanza era costituito da un barile vuoto che serviva da sedia. Offrii del vino a Trakl e continuai a lavorare al mio quadro; egli mi guardava in silenzio […]. Il grande quadro che mostra me e la donna tanto amata su un relitto nello spazio era finito. Improvvisamente il silenzio fu rotto dalla voce di Trakl […] (che) vestiva a lutto. Il suo dolore era come la luna che si muove davanti al sole oscurandolo. E lentamente recitò a se stesso una poesia […] Compose così quella sua strana lirica “La notte davanti al mio quadro”. “Te io canto selvaggio dirupo, nella tempesta notturna erta montagna; voi grigie torri traboccanti di ghigni infernali, animali di fuoco, ruvide felci, abeti, fiori di cristallo. Infinito tormento, che tu insegua Dio, mite spirito, che sospiri nella cascata, negli ondeggianti pinastri”.

Al pari di Benn, Trakl è attratto dalla patologia del comportamento umano, ma mentre Benn traduce le sue emozioni in un linguaggio fortemente controllato, classico, lo stile di Trakl è più immediato, più “fratto”.

Tripodo non si fa la domanda, egli crede fino in fondo all’onestà intellettuale di Trakl, non ha dubbi sulle sue intenzioni e cerca, si sforza, e ci riesce, di trovare sempre, se non un nesso logico, spesso oggettivamente inesistente, una ragione poetica delle scelte di Trakl, il quale si affida a quella che potremmo definire una “collisione” di parole, o frasi, per produrre delle reazioni imprevedibili, stressando la lingua per creare accostamenti volutamente intraducibili e perciò non interpretabili. Pur dando conto, lucidamente, delle volute ambiguità. Un esempio fra i tanti: Melancholie.Ombre azzurrine. O voi, occhi e ombre”. Ecco la prima “infedeltà” che risponde però a una precisa scelta stilistica. Il testo tedesco è: “O ihr dunklen Augen”, alla lettera “o voi occhi scuri” (così traduce per esempio Ervino Pocar, prendendosi peraltro la libertà di aggiungere un “begli”, non solo del tutto gratuito, ma che riduce la malinconia– per restare al titolo – del contesto). Perché Tripodo preferisce ripetere la parola “ombra”, invece di attenersi strettamente al testo? Azzardo un’ipotesi, tenendo presente che ci troviamo di fronte non a un traduttore, ma a un poeta-traduttore. Intende proprio sottolineare l’aura che già in apertura il termine “Blaulische” aveva introdotto, e non teme di forzare il verso, imponendo una cesura (la virgola dopo “O voi”) e un’iterazione (“ombre”). Continuiamo la lettura, completando la strofa: “Ombre azzurrine. O voi, occhi e ombre, / che a lungo mi osservate, via scivolando.” Questo è uno dei punti in cui bisogna operare una scelta. Il testo originale recita: “O ihr dunklen Augen / Die lang mich anschaun im Vorubergleiten.“Qui non c’è… lettera che tenga. L’espressione „Im Vorubergleiten“(“nello scivolar via”) si può riferire a “ihr dunklen Augen” oppure a “mich”.Pocar sceglie quest’ultima soluzione: “O voi begli occhi scuri che mi fissate a lungo mentre passo”; Tripodo la prima, ma utilizzando un gerundio che dà il senso del movimento pur insito nel verbo e lasciando, a mio avviso, un margine di ambiguità. Nel testo di Trakl, dopo questi due versi c’è un punto. Tripodo preferisce non interrompere il fluire dei versi che così proseguono: “morbidi suoni di chitarre fan compagnia all’autunno / nel giardino, disciolto in bruno ranno.” A parte il fatto di non aver cercato un sinonimo meno desueto del termine “ranno” (in tedesco “Laugen”, difficilmente rintracciabile nei dizionari moderni), ha scelto di non tradurre “begleiten” con “accompagnano”,che avrebbe fatto rima con il successivo “bereiten”,maha preferito spezzare il ritmo con “fan compagnia”. Ritengo sempre per evitare gli “effetti facili” da cui rifugge puntigliosamente. Tralascio, con cattiveria…, la seconda parte della poesia, in modo da suscitare la curiosità del lettore e spingerlo a cercare il volume, ancora fortunatamente rintracciabile sulla – benemerita – rete per leggervi tutti i testi scelti e tradotti da Tripodo.

Il quale parte da un assunto: che Trakl sia legato al suo tempo, ma sia, anche, universale. E perciò fortemente attuale, per ciò che Tripodo definisce “l’antilirismo” della sua poesia, a proposito della quale parla di “concerto disatteso”, la cui caratteristica è non tanto la musicalità dei versi, che pur c’è (e raggiunta attraverso le parole-rima), quanto la loro “pregnanza” evocativa. La “musica” di Trakl è ricca di silenzi, di pause, come nelle composizioni di Webern, che, non a caso, musicò molte liriche di Trakl.

E queste sono perciò le linee guida delle sue “interpretazioni”: non vi è mai la tentazione di sovrapporsi al poeta, forzando il senso delle parole alla ricerca di una “chiarezza” che sarebbe fuorviante (e comunque impossibile da raggiungere), ma egli accosta il proprio orecchio al cuore del poeta per coglierne il ritmo segreto e riprodurlo in una lingua diversa, guardandosi bene dallo scimmiottare il codice di quella originale (come la maggior parte dei traduttori purtroppo fa, creando di fatto una lingua inesistente), ma utilizzando tutte le risorse che la sua grande e raffinata cultura e il suo mestiere di poeta gli mettono a disposizione.

Il risultato è luminoso. Le sue versioni sono “fedeli”, non solo allo spirito ma anche alla forma delle liriche tradotte, e sono belle in sé, come fossero state create direttamente nella lingua che adopera.

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