Processo Cavallini: se il “profilo” dell’imputato non è da “stragista”
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
La sospensione di una settimana del dibattimento in corso per la Strage del 2 agosto, lascia il tempo di ragionare su quella che gli “esperti” del settore definirebbero la “psicologia criminale” di Gilberto Cavallini, cercando di capire se il suo “profilo”, in tal senso, s’attaglia in qualche modo all’accusa che oggi e per l’ennesima volta gli viene contestata. In particolare le parti civili, tendono in questi mesi a descriverlo come un freddo killer, capace di colpire qualsiasi bersaglio, in qualsiasi situazione, sostanzialmente privo di scrupoli. La biografia dell’ex-terrorista, però, non sembra deporre in tal senso. Sicuramente, Cavallini è stato uno dei “duri” più determinati nel campo della “eversione nera” e ha colpito i suoi nemici spietatamente, a volte, ma non sembra aver mai agito con le modalità indiscriminate che caratterizzano lo “stragista”. Già nel primo coinvolgimento in fatti di sangue, quando era ancora un militante del Msi-Dn di Milano, la sua personale responsabilità si limitò al concorso e, comunque, l’omicidio per accoltellamento di Gaetano Amoroso maturò tragicamente nell’ambito di uno dei mille e mille scontri tra “rossi” e neri” che infestarono gli anni ’70. Certo, insieme ad Alessandro Alibrandi si mostrò implacabile nell’episodio che costò la vita a Marco Pizzarri (30 settembre 1991), ma i due erano animati dal forte risentimento – per quanto folle – suscitato dalla convinzione – per altro errata – che si trattasse della persona che aveva “venduto” alla Polizia Luigi Ciavardini e Nanni De Angelis e, di conseguenza, che fosse responsabile, in un’ultima analisi, dell’assassinio di quest’ultimo. Insomma, una vendetta che, per sua stessa natura, è sempre un atto destinato a scadere nelle conseguenze estreme. Molti più scrupoli – come testimoniano gli stessi atti processuali che ne hanno cagionato la condanna all’ergastolo per quell’omicidio -, Cavallini li manifestò quando si trattò di colpire il giudice Mario Amato, con l’attentato rinviato più volte per evitare di assassinare il magistrato in presenza del figlio. E la stessa premura, quella verso il figlio della potenziale vittima, indussero Cavallini a far desistere i Nar dal proposito di uccidere Massimiliano Fachini, accusato da alcuni di loro di essere un “infame”. Altri due episodi che gli valsero condanne durissime – nel primo caso, un altro ergastolo -, quelli in cui morirono il poliziotto Franco Evangelista e i carabinieri Enea Condotto e Luigi Maronese, lo videro solo “concorrente” al reato, senza una sua partecipazione alle sparatorie; mentre i tre episodi in cui la sua responsabilità fu anche diretta – e in cui morirono complessivamente quattro tra poliziotti e carabinieri – furono conflitti a fuoco, due dei quali certamente non premeditati e ingaggiati nel tentativo di sfuggire alla cattura. Sia chiaro – lo si è detto e lo si ripete -, si tratta in ogni caso di crimini, anche efferati, ma che, però, non contribuiscono certo – per dinamica e modalità – a far assomigliare minimamente Cavallini all’assassino senza remora alcuna che colloca o aiuta a collocare una bomba in una stazione per colpire una massa innocente. Per altro, nella lunga sequela di reati di cui si rese responsabile, negli “anni di piombo”, in nessuno si avvalse di esplosivo, rafforzando ulteriormente la convinzione che ben diverse fossero le sue strategia e pratica terroristica. Ovviamente, i ragionamenti psicologici non bastano a determinare un giudizio – di colpevolezza o di assoluzione -, da parte di una corte a carico di un imputato in un processo come quello per la bomba alla stazione di Bologna; però, in un processo che è sempre stato esclusivamente indiziario in tutte le sue fasi, dal 1980 a oggi, può costituire un significativo elemento. Un elemento che s’aggiunge a tanti altri e che pare ribadire che s’insiste, ancor oggi, sulla strada sbagliata, nell’attribuzione delle responsabilità per quell’attentato.