Licenziamenti, la Consulta boccia il Job Act e il Dl Dignità sui risarcimenti
La Consulta boccia sia il Job Acts di Renzi che il Dl Dignità voluto dai Cinque Stelle. Secondo la Corte, è incostituzionale il criterio di determinazione dell’indennità che spetta al lavoratore ingiustamente licenziato legato esclusivamente all’anzianità di servizio.
Spetta, invece, al giudice, sostiene con la sentenza numero 194, determinare l’indennità risarcitoria che dovrà perciò tenere conto non solo dell’anzianità di servizio ma anche degli altri criteri «desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti, numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti».
In definitiva la sentenza della Corte Costituzionale dichiara incostituzionale sia quanto previsto dal Jobs act nel 2015 sui contratti a tutele crescenti che quanto modificato dal Dl Dignità nel 2018 che ha innalzato la misura minima e massima dell’indennità.
Il meccanismo di quantificazione del risarcimento pari ad un «importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio» spiega ancora la sentenza della Consulta, rende infatti l’indennità «rigida» e «uniforme» per tutti i lavoratori con la stessa anzianità, così da farle assumere i connotati di una liquidazione «forfetizzata e standardizzata» del danno derivante al lavoratore dall’ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato.
Pertanto, il giudice, scrivono in sentenza i magistrati della Consulta, «nell’esercitare la propria discrezionalità nel rispetto dei limiti, minimo (4, ora 6 mensilità) e massimo (24, ora 36 mensilità), dell’intervallo in cui va quantificata l’indennità, dovrà tener conto non solo dell’anzianità di servizio, criterio che ispira il disegno riformatore del 2015, ma anche degli altri criteri «desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)».
La disposizione censurata infatti, prosegue la Corte Costituzionale, contrasta anzitutto con il principio di eguaglianza, sotto il profilo dell’ingiustificata omologazione di situazioni diverse: finisce infatti, conclude la Consulta, «col prevedere una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, venendo meno all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore, anch’essa imposta dal principio di eguaglianza».