Conte si atteggia a «barbaro». Ma più che Attila, somiglia ad Asterix
Che ad atteggiarsi a “barbaro” sia Matteo Salvini, passi pure: è nordico e viene da una Lega che anche nel suo formato “nazionale” non ha mai smorzato la sua passione per gli elmi cornuti, retaggio di epica sfida a «Roma ladrona». In più possiede una spiccata e innata alterità rispetto a quel bon ton istituzionale così familiare ai frequentatori del salotto buono delle regole democratiche. Analoga indole non possono però vantare il troppo azzimato Luigi Di Maio o il premier Giuseppe Conte, meridionale di Volturara Appula e perciò troppo intriso di Magna Grecia per incarnare un tragico come Braveheart o (persino) il simpatico Asterix dei fumetti. Stupisce perciò non poco che nella consueta confessione cui Bruno Vespa sottopone i protagonisti della politica nazionale in vista della pubblicazione del suo libro prenatalizio, lo stesso Conte abbia rivelato di considerare «barbaro» una «bella parola» perché – ha spiegato – «richiama l’abitudine dei greci di chiamare barbaro lo straniero, l’estraneo alla comunità». Il resto è abbastanza scontato: «Ebbene, noi siamo estranei all’establishment, e quindi, sotto questo profilo, siamo dei barbari». Un sillogismo che avrebbe lasciato stecchito persino Aristotele. Ma Conte, sempre così finemente incravattato, sa fin troppo bene che del «barbaro» non possiede neppure le physique du rôle e perciò mette le mani avanti: «Io sono avvocato e professore d’università, conosco l‘establishment, ma non mi sono mai rassegnato a lasciare le cose immutate, perpetuando privilegi e rendite di posizione. Questo governo esprime nel suo complesso forze vergini». Ci siamo: politicamente parlando, Conte è «vergine». Più che il barbaro che Roma vuole conquistarla, è il peregrinus che vuole vederla per la prima volta. Diversamente, non si farebbe mangiare in testa dalla Lega. Magari il premier fosse un Arminio o un Attila e i suoi Cinquestelle un’orda di barbari pronti ad opporre il proprio sangue fresco alla decadenza incalzante. Già, per dirla con il greco Kafavis, «era una soluzione, quella gente».