Strage di Bologna: insistere sul delitto Mattarella per l’accusa è un’autorete

23 Ott 2018 10:54 - di Massimiliano Mazzanti

Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo. Caro direttore, Tra gli autogoal che le parti civili del processo contro Gilberto Cavallini per la strage di Bologna rischiano di segnare in modo clamoroso c’è certamente, primo tra tutti, quello d’insistere ad allargare il dibattimento, riproponendo l’imputato come possibile assassino anche di Piersanti Mattarella, dell’attuale capo dello Stato. Cavallini è stato già processato e assolto in via definitiva per quell’imputazione, ma – bisogna prenderne atto, almeno quando si parla di “terrorismo nero” – da “rispettare indiscutibilmente” sono sempre e solo le sentenze di condanna, mentre le assoluzioni si possono contestare indefinitamente. E, infatti, il rischio che corre chi torna su piste già lungamente esplorate non è certo questo di vedersi accusare di perdere tempo inutilmente.

Così come non temono certo di sfidare la vergogna, coloro i quali sembrano aver scordato che Cavallini – e con lui Valerio Fioravanti – uscirono indenni dal processo celebrato a Palermo non tanto e non solo perché gli indizi “materiali” – inclusi i pretesi “riconoscimenti” da parte della moglie della stessa vittima – non trovarono alcun riscontro, né in sede d’indagini e men che meno di dibattimento; ma, sopra a tutto, perché – come spiegarono esemplarmente i magistrati siciliani nella sentenza di primo grado (successivamente confermata nei due gradi di giudizio ulteriori) – “logicamente” non sarebbe mai potuta accadere una cosa del genere e, cioè, che uno dei più “eccellenti delitti” di Mafia fosse stato “appaltato” dai boss a due killer di fatto sconosciuti e pericolosamente del tutto estranei a “Cosa nostra”.

Prima di andare al nocciolo della questione odierna, non sarà tempo perso ricordare quale fosse l’ipotesi investigativa con cui si voleva coinvolgere Cavallini e Fioravanti nel delitto Mattarella. In un momento di presunta divisione della “cupola palermitana”, coi “corleonesi” decisi ad assassinare Mattarella e altri contrari, in particolare Stefano Bontate, i primi avrebbero deciso di usare killer esterni all’organizzazione per tenere i secondi all’oscuro di tutto. La scelta di Fioravanti e Cavallini sarebbe stata compiuta, quindi, per intermediazione di Pippo Calò (con una non meglio precisata collaborazione di Francesco “Ciccio” Mangiameli), noto uomo di collegamento della Mafia con la Banda della Magliana, il cui capo, Franco Giuseppucci, a sua volta, era in contatto coi “neri”. È questa la girandola di amicizie criminali e reciproche disponibilità all’aiuto che avrebbero portato i Nar ad accettare di uccidere Mattarella, secondo quanto testimoniarono – con continui affinamenti durati un decennio circa – prima il fratello di Giusva, Cristiano Fioravanti, e poi, Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo. Il movente dei Nar che indusse loro ad accettare il patto coi mafiosi: ottenere appoggi utili all’evasione di Pierluigi Concutelli. Ipotesi fantasiosa, questa, perché, in primo luogo, i giudici accertarono che non ci fu alcuna divisione in seno alla “cupola”, sulla proposta di assassinare Piersanti Mattarella, facendo crollare la suggestiva tesi della “necessità” dei killer esterni. In secondo luogo, la sentenza rilevò come – se fosse stata vera la contrarietà del Bontate alla proposta di uccidere il presidente della Regione Sicilia – di certo i “corleonesi” non avrebbero chiesto a Calò di trovar loro dei killer, dal momento che, nel 1980, quando operava a Roma in contatto con la Magliana, “Pippo il ragioniere” era uomo di fiducia proprio dello stesso Bontate. A ciò che scrivono i magistrati circa l’assurdità di questa ipotesi, dal “punto di vista” mafioso, si deve aggiungere quanto addirittura esilarante diventa nell’ottica degli allora Nar, i quali – per garantirsi un eventuale appoggio della Mafia palermitana nell’evasione di Concutelli dal carcere de L’Ucciardone, progettata per il 4 di aprile – avrebbero accettato di compiere – con tutti i rischi connessi, anche di essere riconosciuti – un delitto tanto eclatante solo tre mesi prima. Per di più, senza nemmeno farsi risolvere dalla Mafia – certamente in grado di soddisfare la triste bisogna- il problema delle “armi pesanti” necessarie ad assaltare la galera, tanto che nel marzo di quello stesso anno – e proprio in previsione dell’evasione di Concutelli – Fioravanti tenterà un’irruzione (fallita) nel Distretto militare di Padova, al fine di rapinare una o due mitragliatrici pesanti. In cosa consiste, quindi, l’autorete delle parti civili, se non già in queste enormi contraddizioni e nei pronunciamenti giudiziari sull’evento? Consistono nelle pesanti censure – accompagnate da due dure condanne per calunnia ai danni dei “pentiti” Izzo e Pellegriti – che i magistrati palermitani espressero nel processo Mattarella nei confronti dei “collaboranti” che furono additati come autori di un vero e proprio “depistaggio”, finalizzato a coprire o colpire chissà chi. Depistaggio attuato, dopo le prime mendaci parole di Cristiano Fioravanti, da Izzo per tramite di Pellegriti, dopo contatti con uno degli investigatori maggiormente impegnati allora nelle indagini sul 2 agosto, Lorenzo Murgolo della Digos di Bologna, e coi primi interrogatori resi al “pm”, Libero Mancuso. Dunque – evidenzia la sentenza -, Pellegriti <in questa vicenda è stato soltanto “strumento” di altre volontà, quali Izzo, e, verosimilmente,altri rimasti ignoti>. Altri chi? Altri mafiosi? Altri pentiti smaniosi di farsi belli agli occhi degli inquirenti? Oppure di organi dello Stato interessati, nel 1989, a rafforzare, come se ce ne fosse bisogno,l’immagine criminale di Fioravanti? Per altro, quando Pellegriti decise di ammettere di aver mentito su tutta la faccenda e di aver seguito le indicazioni di Izzo, fece ai magistrati palermitani un’altra ammissione di rilievo anche per l’attuale processo per la strage di Bologna: <Per convincermi, l’Izzo mi disse, tra l’altro, di non preoccuparmi perché egli era già riuscito ad orientare bene le dichiarazioni di una sua amica, tale Gabriella (rectius, trattasi di Raffaella Furiozzi) che è stata sentita come teste nel processo per la strage di Bologna>. Si tratta, per chi non lo ricordasse, di quella Furiozzi che fu ritenuta fondamentale per “inchiodare” Luigi Ciavardini e, quindi, gli altri imputati Nar per l’attentato del 2 agosto. Ecco, allora, perché rimestare ancora questa storia, oggi, può risultare un’autorete per le parti civili: perché mette sotto gli occhi della Corte d’Assise come, già tante volte in passato, forse anche con la collaborazione di settori dello Stato non proprio fedeli alla consegna, le “testimonianze” contro i Nar per la strage di Bologna, con cui si sopperì alla mancanza di prove, furono palesemente “costruite”. Dulcis in fundo: la ipotesi di un coinvolgimento di “terroristi” nell’omicidio Mattarella fu formulata dal Sisde, con un’informativa del 15 maggio 1980. Si parlava di “terroristi rossi”, in realtà, ma lo stesso Sisde – il “servizio” che secondo la “vulgata” avrebbe sempre aiutato i neofascisti in quegli anni – in un batter di ciglia, pensò opportuno cambiare colore alla dritta…

 

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