2 agosto ’80: Ansaldi interrogato su un testo che disconosce clamorosamente in aula
Riceviamo da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore,
Ieri, al processo contro Gilberto Cavallini, è accaduto qualcosa che, in qualsiasi altra aula giudiziaria, avrebbe suscitato uno scandalo di cui si sarebbe parlato per giorni sui media. L’udienza è stata interamente dedicata ad ascoltare la testimonianza di Mauro Ansaldi, ex-militante di Terza posizione a Torino, “pentitosi” dopo l’arresto, il quale, nei primi anni ’80, organizzava e portava a buon fine l’espatrio in Francia dei latitanti dell’eversione di destra. Un’audizione voluta dalle parti civili, ma sostanzialmente positiva per la difesa dell’imputato, avendo l’Ansaldi chiarito più volte come, sui nodi essenziali del procedimento in corso, quel che lui ha ripetuto per anni in decine di verbali sono sostanzialmente “voci” ascoltate qua e là, dentro e fuori dal carcere, parole di altri che, spesso, hanno smentito di averle pronunciate. Ma non è stato questo, a suscitare stupore in aula. Per buona parte dell’interrogatorio, la parte iniziale, condotto come di rito dall’avvocato Andrea Speranzoni, legale di punta delle parti civili, la memoria del teste è stata sollecitata ripetutamente sulla base di un verbale del 23 aprile 1983 e di cui il teste faceva fatica a ricordare i contenuti. Anzi, alla lettura di alcuni passaggi, Ansaldi ha manifestato incredulità vera e propria, nel sentirsi ricordare di aver affermato determinate cose. Che stesse accadendo qualcosa di strano, in aula, lo subodoravano anche Alessandro Pellegrini e Gabriele Bordoni, ai quali, nella preparazione dell’udienza, solitamente molto accurata, quei fogli di tanti anni orsono erano evidentemente sfuggiti. Possibile? No, infatti, non era possibile che i difensori di Cavallini avessero scordato un testo che, letto in aula, appariva tanto significativo nell’economia di questa fase processuale: quella deposizione attribuita ad Ansaldi e sulla quale lo si è interrogato lungamente era per lo meno di dubbia “genuinità”. Chiesta un’interruzione per prendere visione del documento su cui si stava incentrando l’interrogatorio, è risultato come si trattasse di un verbale che in calce, dattiloscritti, riportava il nome del teste e quello del magistrato milanese che all’epoca l’avrebbe interrogato – Maria Luisa Dameno -, ma non le firme autografe. Un verbale che, a quel punto, l’Ansaldi ha chiesto di visionare nella sua interezza e che lo stesso ha categoricamente disconosciuto: non c’era la sua firma perché lui quelle dichiarazioni non le avrebbe mai fatte. Immediata, quindi, la decisione della Corte di dichiarare inammissibile il deposito agli atti e l’uso di quel documento in aula, con la conseguente cancellazione dell’interrogatorio fin lì condotto. Ma com’è stato possibile introdurre in un dibattimento così delicato e importante un tale documento? Speranzoni ha spiegato di averlo trovato in uno dei faldoni del vecchio processo romano ai Nar e che, in buona fede, essendo comunque su carta intestata della Procura di Milano e conservato in un archivio di tribunale, lo aveva reputato autentico. Anche senza mettere in dubbio la versione delle parti civili, comunque risulta enorme l’aver dato per scontato ciò che era tutt’altro che tale e che, al limite, avrebbe dovuto indurre chi pensava che il “documento” potesse essere autentico a mostrarlo preventivamente all’analisi del testimone, chiedendogli magari di attribuirsene o meno la paternità. Al di là dell’infortunio in cui è caduto ieri l’avvocato Speranzoni, qualcos’altro raccontano quei fogli – che Ansaldi ha anche ribadito di disconoscere direttamente a chi scrive, in una pausa dell’udienza -; raccontano, cioè, di come, in passato, i processi contro i “neri” sono stati sì inquinati spesso, ma non per proteggere gli imputati, bensì per “inchiodarli”. Oltre a questo, la stampa odierna ha registrato come Ansaldi abbia confermato la sua versione sull’unico episodio vissuto in prima versione e che avrebbe un legame effettivo con la strage di Bologna: nel corso di un dialogo con Giovanni Cogolli e Fabrizio Zani, la prima gli avrebbe raccontato, qualche settimana prima dell’attentato, che Massimiliano Fachini l’avrebbe avvertita di andarsene da Bologna, perché c’era il rischio che accadesse qualcosa di grave. Si tratta di quella famosa “premonizione” dell’evento terroristico che costò al Fachini stesso anni e anni di persecuzione giudiziaria (terminati con una piena assoluzione). Ebbene, ieri il teste ha più volte ripetuto di ricordare, però, come il senso delle parole della Cogolli – la quale, interrogata la volta scorsa, ha per altro smentito categoricamente di aver pronunciato questa frase – fosse quello di un “qualcosa” che sarebbe potuto accadere a lei personalmente e non l’annuncio di un fatto in cui sarebbe potuta essere coinvolta. Dunque, per ammissione dell’Ansaldi di oggi, non ci sarebbe stata alcuna “profezia” della strage. Non solo. Interrogato alla fine dai difensori di Cavallini, Ansaldi è tornato a cadere nella contraddizione che già rese poco credibile che ci fosse stato effettivamente, all’epoca, questo dialogo tra lui e la Cogolli. Richiesto di spiegare perché mai, nel primo interrogatorio in cui parlò di questo episodio, disse che il dialogo fu tra Fachini, la Cogolli e Zani, precisando, invece, in deposizioni successive, come ci fossero solo Fachini e la Cogolli, Ansaldi ha sostanzialmente detto di aver fatto probabilmente confusione, oppure di non aver ricordato successivamente la presenza di Zani, dandola per scontata. Insomma, non lo ha spiegato. E non avrebbe potuto farlo, dal momento che, quando rese per la prima volta questa dichiarazione, nessuno aveva fatto notare ad Ansaldi come non fosse possibile che Fachini avesse parlato a Zani e alla Cogolli insieme, quando la donna gli avrebbe ascoltato la “profezia” di Fachini, poiché, all’epoca in cui si datava la presunta confidenza, Zani era detenuto. Solo dopo che qualcuno fece notare questa enormità, Ansaldi, nei successivi interrogatori, cambiò versione, elidendo la presenza del marito della Cogolli. Insomma, un’atra “cartuccia a salve”, quella sparata ieri dall’accusa.