Un documento del comune di Padova conferma l’alibi di Mambro e Cavallini
Riceviamo e da Massimiliano Mazzanti e volentieri pubblichiamo.
Caro direttore,
di fronte a ogni delitto che si rispetti, all’imputato o agli indiziati si è solito chiedere se abbia o abbiano un alibi che li sottragga da qualsiasi sospetto. Accadde anche per Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ovviamente. Com’è noto, l’atteggiamento iniziale di Giusva, dopo l’arresto, era sostanzialmente improntato a mentire su tutto, per consentire ai suoi sodali di non essere coinvolti nelle sue azioni e di non patire conseguenza dalla sua cattura. Altrettanto fece la Mambro, se non che lei – quando fu catturata, dopo il ferimento nel corso di una rapina a una sede della Bnl di Roma, il 5 marzo 1982 -, quando le fu chiesto dove fosse stata il precedente 2 agosto 1980, rispose d’essere rimasta tutta la mattina a Padova, in piazza Prato della Valle. Ricordò anche, la Mambro, come ci fosse un bel mercato, quella mattina, nel capoluogo veneto. Fioravanti – è bene ricordarlo – era già stato a sua volta ferito e arrestato esattamente un anno e un mese prima di lei – il 5 febbraio 1981 -, mentre Luigi Ciavardini – di cui nessuno ipotizzava in quel momento la partecipazione alla strage di Bologna – languiva già nelle patrie galere dal 3 ottobre del 1980. L’unico libero e latitante della banda, quindi, quando la Mambro cadde nelle mani della Giustizia, era proprio l’odierno imputato alla sbarra a Bologna, Gilberto Cavallini. Cavallini che, a sua volta, arrestato nel 1983, quando sarà implicato nella strage, dichiarerà di aver accompagnato a Padova Fioravanti, Ciavardini e la Mambro, lasciandoli a Prato della Valle per il tempo a lui necessario per incontrare una persona con cui avrebbe dovuto parlare di armi. L’avvocato di Francesca Mambro era all’epoca Adriano Cerquetti, già deputato del Msi e di Democrazia nazionale; mentre Giusva era difeso dall’avvocato Cipollone. Impossibile, quindi, per la Mambro, sapere se e quale alibi avesse fornito Valerio, qualora gli fosse stata fatta la stessa domanda. Eppure – va sottolineato di nuovo – lei indicò un preciso luogo di Padova, in cui rammentò anche un evento particolare. Un evento particolare e non scontato perché, trattandosi di un’iniziativa commerciale, per quanto tradizionale, non era affatto certo che si fosse tenuta anche il primo sabato di agosto che, va ricordato, nell’Italia dei primi anni ’80, era il più classico dei fine settima festivi, quello che dava il via al “grande esodo” delle vacanze. Non essendo padovana, ma romana, e non frequentando Padova assiduamente, solo essendoci effettivamente stata, la Mambro avrebbe potuto con tanta sicurezza e senza tema di essere smentita dai suoi complici, indicare un alibi tanto preciso. Eppure – giusto per far comprendere come siano state condotte le indagini sulla strage di Bologna -, ci vorranno ben 19 anni, prima che qualcuno si sentisse in dovere di chiedersi se l’alibi della Mambro fosse concreto o meno. E non nel processo che la vedeva imputata, assieme al marito. No: quell’alibi fu verificato solo nel processo a Luigi Ciavardini, davanti al Tribunale dei minori di Bologna, nel 1999, quello che si concluse con l’assoluzione dell’imputato e il cui verdetto venne successivamente ribaltato in appello con una sentenza che fece – e fa ancora – molto discutere. E Ciavardini venne assolto dalla giuria popolare proprio anche in base al documento che qui viene mostrato e che confermò l’alibi dell Mambro e, nel ’99, anche di Ciavardini: una banale comunicazione del Comune di Padova che attestava e attesta che anche nella giornata di sabato del 2 agosto 1980 il mercato a piazza Prato della Valle si tenne regolarmente. Ora questo documento confluirà anche nel processo a carico di Cavallini e si spera che, come nel ’99, venga valutato in tutta la sua fondamentale importanza. E si spera anche che venga letto alla luce della constatazione che non fu il pubblico ministero, l’accusa, a chiedere al Comune di confermare o smentire ciò che asseriva Ciavardini (e la Mambro), bensì fu Alessandro Pellegrini, il difensore dell’imputato, evidenziando in questo modo una carenza investigativa enorme, inconcepibile, se non nella cornice di un processo teso, come quelli precedenti, non già ad accettare la verità, ma a confermare “quella verità” che, evidentemente, faceva comodo a tanti fosse confermata.