Si dà malato e va a giocare a calcio. Il giudice lo salva con una norma fascista
Lamentando una cefalea, si era dato malato al lavoro. Ma era andato a giocare a calcio. Per questo l’azienda lo aveva licenziato in tronco per violazione «degli obblighi i correttezza, lealtà e diligenza in forza del rapporto di lavoro». Un giudice del Tribunale di Napoli, però, ne ha disposto il reintegro e ha condannato il datore di lavoro, l’Eav, l’azienda di trasporto pubblico campano, a pagare le spese legali e un anno di stipendio arretrato. A salvare questo “furbetto del certificato” è stata una norma di epoca fascista: il regio decreto 148 del 1931, che prevede la sospensione come massima pena per la «simulazione di malattia».
Il caso del lavoratore di Napoli non è isolato e, anzi, a cercare nelle cronache, sono numerosi gli episodi di lavoratori per cui la “febbre a 90°” è stata più forte della lealtà nei confronti dell’azienda. Pagando non di rado con il licenziamento «giusta causa». Una differenza di trattamento che non attiene solo alla discrezionalità del giudice, ma alla legge. La norma applicata a Napoli, infatti, riguarda espressamente il contratto dei tranvieri, in cui la malattia simulata viene riconosciuta, sì, come un comportamento che mina il rapporto fiduciario tra lavoratore e azienda, ma non tale da giustificare il licenziamento.