In sei anni chiudono quasi 60mila negozi. E i megastore si arricchiscono

24 Set 2018 9:44 - di Fortunata Cerri

Chiudono i piccoli negozi a vantaggio dei megastore. La liberalizzazione del commercio introdotta dal governo Monti, concedendo la facoltà ai negozianti di stare aperti 24 ore su 24 per 365 giorni l’anno, domeniche e festivi compresi, ha contribuito, in 6 anni, alla chiusura di 55.951 negozi di piccole e medie dimensioni, con superfici inferiori ai 400 mq. Ma non solo, nello stesso periodo che va dal 2011 al 2017, i megastore, al contrario, sono aumentati di oltre 2.400 unità in Italia. E’ quanto emerge da un’elaborazione condotta da Confesercenti su dati Istat e Mise per l’Adnkronos in vista del round di audizioni che si svolgerà a partire da martedì prossimo, il 25 settembre, alla commissione Attività produttive della Camera, su cinque proposte di legge in tema di liberalizzazioni per abrogare o modificare le norme contenute dal decreto Salva Italia.

In particolare, la Confesercenti rileva che con la totale “deregulation” degli orari e dei giorni di apertura, complice naturalmente il calo dei consumi delle famiglie, ad aver subito il maggiore contraccolpo sono stati soprattutto gli esercizi commerciali di dimensioni più piccole: quelli con una superfice inferiore ai 50 metri quadri hanno registrato 31.594 chiusure; a seguire quelli tra i 50 e 150 mq con – 22.873. Perdite di gran lunga inferiori per i negozi tra 150 e 250 mq (-754) e tra 250 e 400 mq (-730). In controtendenza risultano quindi i megastore con 2.419 nuove aperture.

 Lo scenario si riflette, di conseguenza, sulle quote di mercato dei consumi commercializzati. La Gdo nei 6 anni considerati ha guadagnato 7 miliardi pari ad un incremento di circa il 3% a danno dei piccoli. Nel 2011 infatti la Gdo aveva una quota di mercato pari al 57,7%, salita nel 2016 al 60,2%, laddove il comparto “tradizionale”, nel medesimo periodo, è passato dal 29,8% al 27,2%. In crescita anche il commercio online che ha guadagnato il 2,5 punti percentuali passando da una quota dell’1,9% al 4,4%. Mentre altre forme di commercio hanno perso terreno passando dal 10,6% a 8,2%.La liberalizzazione inoltre, secondo l’indagine di Confesercenti, ha inciso negativamente sull’occupazione complessiva del settore senza creare posti di lavoro aggiuntivi: tra il 2012 e il 2016 infatti, gli occupati del commercio sono passati da 1.918.675 a 1.888.951 con una perdita di 29.724 posti di lavoro.

Un calo dovuto soprattutto alla morìa di piccoli negozi. A spingere il dato verso il basso è infatti il crollo dei lavoratori indipendenti, cioè imprenditori e collaboratori familiari, che in questi quattro anni sono diminuiti di oltre 62mila unità, e la flessione degli esterni (imprenditori della consulenza e altro, che appoggiavano la rete dei negozi di vicinato) che invece perdono oltre 17mila posti di lavoro. Un’emorragia di occupazione che la crescita dei dipendenti (+47mila) e dei lavoratori temporanei (oltre 3.400 in più) non è riuscita a compensare.

Commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

  • sergi 25 Settembre 2018

    Grazie a quel politico di Monti, ha rovinato tutti i piccoli negozi, stanno chiudendo baracca, non c’è più il rapporto umano del negozietto sotto casa.

  • Laura Prosperini 24 Settembre 2018

    tutti gli economisti seri, da cinquant’anni ad oggi
    hanno teorizzato che il far west, cioè il liberismo (cioè niente regole e se proprio dobbiamo farle, che siano neutre…)
    porta naturalmente ed inevitabilmente, nel tempo, alla concentrazione della ricchezza in mano ai pochi (noti) ricconi stranieri che hanno nelle loro mani le banche
    determinando così il c.d. oligopolio (privato).
    Non ci sono alternative se non una Economia più di Tradizione di cui noi siamo custodi.
    in media stat virtus e non nei vari …ismi (compreso quello che da trent’anni domina: il liberismo)