Negozi chiusi nei festivi, il settore sul piede di guerra: a rischio 400.000 posti
Negozi chiusi nei festivi, l’allarme delle associazioni di settore
Nel dettaglio, e per la precisione, la proposta pentastellata farebbe in modo che «su 52 domeniche i negozi potranno restare aperti solo 12 festività all’anno. Le aziende saranno costrette a licenziare, l’intero comparto perderà 400.000 posti di lavoro e il 10% del fatturato». A lanciare l’allarme, circoscrivendone e sottolineandone le nefaste conseguenze nel dettaglio è, in questo caso, il presidente di Confimprese Mario Resca. Per l’associazione, infatti, qualora la proposta evolvesse in legge, «significherebbe perdere il 15% della forza lavoro in un Paese che ha un tasso di disoccupazione dell’11%, con un Pil in forte rallentamento nel secondo trimestre e un futuro delle famiglie molto incerto». Non solo, esaminando nello specifico il disegno di legge grillino, Confimprese ha rimarcato anche un’altra problematica non da poco, che investirebbe i criteri di scelta e le recriminazioni di varia natura che ne conseguirebbero, della decisione su quali saranno le città turistiche che potranno tenere aperti i negozi nei giorni festivi: «L’Italia – spiegano dall’associazione – è un museo a cielo aperto, detiene il record mondiale di siti Unesco, è meta di turismo culturale, enogastronomico e di business. Il turismo gode di ottima salute, ma i turisti arriveranno nelle nostre città e troveranno i negozi serrati».
Ma come e dove contingentare aperture e chiusure?
E allora, il punto – in un secondo momento – diventa anche questo: quali sono i criteri per stabilire le città a vocazione turistica? E ancora, chiede oltretutto Resca, «il nostro Paese è tutto una meta turistica e noi, oltre che i posti di lavoro, vogliamo perdere anche i servizi e i consumi? Gli acquisti non sono di necessità ma di impulso, la gente consuma se ne ha l’opportunità, ma se i negozi sono chiusi rinuncia e non compra», con le ovvie conseguenze per i mancati introiti e le conseguenti ripercussioni su economia e occupazione. Ma se alcuni contestano nel merito, altri si dichiarano su posizioni più concilianti, come quella espressa da Confcommercio che, dichiarandosi «disponibile al confronto» con il governo, chiede «la reintroduzione di una regolamentazione minima, a nostro avviso indispensabile per il mantenimento del pluralismo distributivo e come migliore garanzia per lo sviluppo delle imprese di ogni dimensione». In una nota sull’intenzione del governo di mettere i paletti alla deregulation nel settore, la Confederazione spiega di prendere «atto dell’intenzione del governo e del Parlamento di intervenire per regolamentare gli orari dei negozi. I fatti – spiegano quindi da Confcommercio – ci hanno dato ragione, la deregolamentazione totale degli ultimi anni non ha prodotto particolari effetti sui consumi e sull’occupazione, né ha incrementato la concorrenzialità del settore, peraltro già ampiamente liberalizzato da tempo». La matassa è intricata, insomma, e scioglierne i nodi per arrivare al bandolo non sarà facile. Né indolore.
E fare suicidio commerciale….
Prima del referendum sulla costituzione promosso dalPD di Renzi il famoso “centro studi del sole24ore” affermava che se avesse vinto il NO si avrebbero avuto almeno cinquecentomila disoccupati e il PIL sarebbe sceso del 3 percento. Proprio come dicono oggi i tanti gufi al contrario!