Omicidio Fragalà, gli imputati cercano di svalutare le perizie che li accusano

31 Mag 2018 19:52 - di Paolo Lami

Le immagini catturate dalle telecamere non lasciano spazio a dubbi. E mostrano chiaramente i due mafiosi Salvatore Ingrassia e Antonino Siragusa, transitare più volte, prima e dopo l’agguato mortale a Enzo Fragalà accanto al luogo in cui il parlamentare fu bastonato e lasciato in fin di vita, in via Nicolò Turrisi a Palermo. Ma, nell’udienza di oggi al processo in corso in questi mesi per l’omicidio dell’avvocato e deputato di Alleanza nazionale, assassinato a bastonate dalla mafia nel febbraio 2010, i difensori degli imputati si aggrappano  disperatamente a quei 5 centimetri di differenza fra l’altezza di uno dei killer, Salvatore Ingrassia, 172 centimetri, appunto, e quanto rilevato dal perito consulente della Procura, il professor Giuseppe Mastronardi, docente di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni presso il Politecnico di Bari. Secondo il quale Ingrassia, visto sulle immagini delle telecamere, appare essere alto circa 178 centimetri. Una sfasatura di 5 centimetri, dovuta, probabilmente, anche al tacco abbondante degli scarponcini Hogan che l’uomo indossava, sulla quale i legali del capomafia del mandamento di Porta Nuova tentano di impostare una battaglia difensiva.

Francesco Introna, il consulente scelto dall’avvocato Vella, difensore di Ingrassia, cerca di offrire anche un altro assist ai legali dell’imputato: si sarebbe perfino recato di persona in cella a misurare il girovita del capomafia – ce lo immaginiamo chino di fronte al boss con il metro da sarto e gli occhiali sul naso – e avrebbe scoperto – ma dopo tre mesi dall’arresto – che l’uomo è un po’ più grassoccio di quanto è stato descritto. Avrebbe una certa pancetta. Il che, vista l’ottima mensa del carcere dove è detenuto e l’inattività del mafioso, costretto a misurare la cella avanti e indietro, ci può effettivamente stare. Altra cosa è riuscire a convincere la Corte che quei centimetri in meno (di altezza) e in più (di circonferenza alla cintura) possano spalancare le porte del carcere al boss di Porta Nuova.

Insomma, a quasi un anno dall’inizio del processo per l’omicidio dell’avvocato Enzo Fragalà e dopo ventuno udienze corroborate da testimonianze, confessioni, intercettazioni e riprese video, sembra di capire che nelle mani della difesa degli imputati mafiosi c’è ben poco. Tant’è che si diquisisce se, per esempio, in un’intercettazione, un altro imputato, il mafioso Francesco Castronovo, un omone di un quintale, pronunci, nella sua auto, una Hyundai Atos, la parola “comunque” piuttosto che la parola “vergogna” mentre i carabinieri registrano, da remoto, il colloquio.

Castronovo è in auto con la sorella e si lascia andare a uno sfogo mentre i carabinieri lo intercettano: «Comunque me la sono scansata… Già quattro anni…minchia…se sapessi che io durerei quattro anni ci metterei la firma».

Così anche la difesa dell’imputato Francesco Arcuri si attacca alla “coerenza”, fra labiale e intercettazione, della parola “Chicco” che, poi, sarebbe il soprannome con cui fra i mafiosi palermitani viene chiamato Francesco “Chicco” Arcuri. In carcere i fratelli Di Giovanni avrebbero detto «Chicco c’entra». Così facendo i Di Giovanni confermano che Arcuri è nel commando che uccise Enzo Fragalà. Sono loro stessi a dire che Fragalà meritava una lezione per aver convinto, in qualità di avvocato di fiducia, alcuni suoi clienti ad aprirsi ai magistrati.

Ma certo non sono questi particolari evocati dalle difese degli imputati, peraltro dettagli veramente minimi e discutibili, a cambiare il destino di un processo che si avvia alle conclusioni e che si è incardinato sulle dichiarazioni dei testimoni e quelle dei pentiti riscontrate con intercettazioni, perfino confessioni in diretta, chiamate di correità e molto altro certificato, anche, dalle riprese delle telecamere e dalle analisi della georeferenziazione dei cellulari degli imputati.

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