Chi è Giovanni Tria, l’amico di Brunetta che non ama l’Europa a trazione tedesca
Giovanni Tria, preside della Facoltà di Economia di Tor Vergata, già presidente della Scuola nazionale dell’Amministratore, è stato co-direttore del Master in Economia dello Sviluppo e Cooperazione Internazionale e Direttore del Ceis (Center for Economics and International Studies di Tor Vergata) . È membro dell’Oecd Innovation Strategy Expert Advisory Group, vice Chair dell’Iccp (Committee for Information, Computer and Communication Policy) e Membro del Consiglio di Amministrazione dell’Ilo (International Labour Organization).
Condivide le critiche di Savona all’attuale assetto europeo, è stato consigliere di Renato Brunetta, collabora con Formiche.net e con Il Foglio. Per la celebrazione dei 60 anni dei Trattati di Roma, a marzo 2017 scrisse proprio con Brunetta un’analisi sul Sole 24 Ore intitolata Superare i tabù per salvare Unione ed euro. Nell’articolo si sottolinea che l’Europa a trazione tedesca «non ha volutamente colto, sbagliando, che l’eccesso di virtù (surplus delle “formiche”) produce più danni dell’eccesso di deficit (dei Paesi “cicala”)».
Negli scorsi giorni, dalle colonne di Fomiche.net, Giovanni Tria, aveva commentato le prime indiscrezioni del contratto di governo tra M5S e Lega. Per la misura bandiera dei Cinque Stelle, il reddito di cittadinanza, spiegava Tria che “non sappiamo ancora cosa sarà questo reddito di cittadinanza e, quindi, le risorse richieste e l’ampiezza del pubblico dei beneficiari. Esso sembra oscillare tra una indennità di disoccupazione un poco rafforzata, (e tale da avvicinarla a sistemi già presenti in altri paesi europei, come ad esempio in Francia, certamente più generosa dell’Italia con chi perde il lavoro) e magari estesa a chi è in cerca di primo impiego, e un provvedimento, improbabile, tale da configurare una società in cui una parte della popolazione produce e l’altra consuma”.
Più interessante è l’obiettivo della flat tax – spiegava l’economista – “che coincide con l’obiettivo di riduzione della pressione fiscale come condizione di una politica di crescita, soprattutto se si vede questo obiettivo non tanto come un modo per aumentare il reddito spendibile di famiglie e imprese, e quindi sostenere la domanda interna, ma come un modo per aumentare il rendimento dei fattori produttivi, lavoro e capitale, e quindi anche degli investimenti”.