30 anni fa ci lasciava Pino Romualdi: la cultura di destra gli deve molto
A trent’anni dalla morte di Pino Romualdi – la cui vicenda umana e politica s’intrecciò con quella di Giorgio Almirante anche in quell’ultimo istante, come nel finale di una tragedia greca – cos’è rimasto delle sue intuizioni e della sua originalissima concezione della Destra? Tanto, tantissimo, ma anche poco e niente al tempo stesso. A voler essere politicamente sinceri e spietati – come lui era, con se stesso e coi suoi amici -, la sua idea di affrancamento del Msi-Dn da ogni forma di nostalgismo si è dimostrata vincente da ogni punto di vista. Pagò quell’atteggiamento moltissimo sul piano personale, al punto che ancor oggi – in particolare “sulla rete” – continuano a girare vergognose e falsissime interpretazioni sulla sua attività di capo di una delle branche dello spionaggio politico e militare della Repubblica sociale italiana, tese essenzialmente non tanto a sporcarne il profilo storico – Giuseppe Parlato, chiarendo quelle pagine, ha di fatto elevato un vero e proprio monumento alla figura del Romualdi vicesegretario del Pfr e capo del Fascismo clandestino dell’immediato dopoguerra -, ma a metterne in pesante discussione le scelte compiute nella seconda parte della sua vita. Se oggi la Destra italiana è “spendibile” come “forza di governo”, lo si deve essenzialmente ai traguardi raggiunti dalla Fiamma, percorrendo la “lunga marcia” impostagli da Romualdi.
Però, Romualdi – e non solo per ragioni biografiche – pose sempre e solo il problema dell’affrancamento” dalle forme nostalgiche; mai si sarebbe sognato anche solo d’ipotizzare quelle forme di vero e proprio “ripudio” che minarono alle fondamenta la solida comunità umana e politica missina, al punto da vederla ancor oggi sostanzialmente dispersa e spaesata. Così come la convinzione romualdiana, secondo la quale un partito dev’essere incardinato – oltre che sua strategia politica chiara e coerente, impregnata di realismo almeno in misura pari di idealismo, su una classe dirigente di “pares”, pur conservando tutto il suo intelligente valore, sembra continuare a cedere il passo alla reiterazione di “culti della personalità” che limitano fatalmente le possibilità di crescita e rilancio dell’area politica potenzialmente più dinamica del panorama italiano. Per altro, Romualdi fu, fin dalla fondazione del Msi e dei suoi primi organi di stampa e, in particolare, con l’epopea giornalistica de L’Italiano, il fautore e il promotore della dimensione “intellettuale” del partito, trascurandone – anche in questo caso, con pesanti conseguenze sul piano personale, pagando lo scotto di una ciclica debolezza congressuale rispetto a chi era più incisivo, sotto questo profilo – il piano organizzativo. È un aspetto fondamentale, questo, della biografia e dell’eredità di Romualdi che, prima o poi, qualcuno dovrà in qualche modo raccogliere: un partito è vivo e politicamente interessante se discute; se litiga; se al suo interno i rapporti di amicizia personale sono intrisi anche di conflittualità ideologica; se, sulla tentazione dell’unanimismo, prevale sempre il gusto della polemica; se c’è volontà di raggiungere sintesi importanti di istanze differenti e non cieca adesione alla “vague” del momento.
Quando scomparve, trent’anni or sono, gli uomini della “corrente” gli dedicarono, nella foto del grande manifesta funebre, la celeberrima frase tolkeniana: “Le radici profonde non gelano”. Se Pino Romualdi avesse potuto commentare quell’ultimo omaggio dei suoi amici, avrebbe ricordato loro come le radici ancorano al terreno un albero, la cui bellezza sta nella chioma che si offre al cielo, al sole, significando come un partito, una comunità, una splendida famiglia politica – quale fu il Msi e quale potrebbe ancora essere la Destra italiana – ha senso e acquista un valore incommensurabile quando ha piedi ben piantati per terra e la testa sempre rivolta al futuro.